Sabato 26 settembre 2020, presso la Biblioteca Civica Fava di San Salvatore Monferrato, è avvenuta l’inaugurazione del Fondo librario “Giorgio Cavallini”.
Il fondo, della consistenza di alcune migliaia di volumi, è appartenuto a Giorgio Cavallini (1928-2018), illustre studioso e professore di Letteratura italiana presso l’Università di Genova. Il professor Cavallini, che è stato ricordato durante l’incontro, nelle sue volontà ha disposto che i suoi libri fossero donati a collezioni e biblioteche in grado di renderli disponibili al pubblico dei lettori e dei giovani (che egli come docente aveva a cuore) in particolare modo.
Dopo un’introduzione del Sindaco di San Salvatore Monferrato Enrico BECCARIA, è intervenuto Stefano TERMANINI, editore e amico del professor Giorgio Cavallini, di cui ha tracciato un breve profilo “non tanto come illustre docente e studioso di letteratura italiana, ma come uomo e come amico”. Il professor Elio GIOANOLA, già collega di Giorgio Cavallini presso la stessa Università di Genova, anch’egli illustre studioso e scrittore, ha parlato di Giorgio Cavallini collega e studioso. Barbara GUGLIELMO di Giorgio Cavallini ha ricordato la grande umanità e signorilità. Infine, Massimo MEATTINI, avvocato, allievo della prima ora di Giorgio Cavallini, ha raccontato la relazione di amicizia profonda e sincera che a lui lo legava.
La cerimonia si è conclusa con il taglio del nastro e l’apertura ufficiale alla consultazione del Fondo librario “Giorgio Cavallini”.
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Con sincera gratitudine al signor sindaco di San Salvatore Monferrato, Enrico Beccaria, al Vicesindaco Corrado Tagliabue e alla Giunta, per la sensibilità culturale dimostrata, per la coscienza che il libro è centro di relazioni e di affetti, “luogo d’incontro”, tempo che non passa.
Grato a Elena Amisano, bibliotecaria di San Salvatore Monferrato, per aver saputo dare al fondo librario «Giorgio Cavallini» la collocazione che gli permetterà di continuare a vivere, tra le mani degli studenti e degli studiosi e di quelle giovani generazioni che Giorgio Cavallini, professore fino alla più profonda radice del suo essere, aveva tra le più care.
[il ricordo di Stefano Termanini]
Avrei difficoltà a ricordare quando.
Se mi chiedessero: «quando hai conosciuto Giorgio Cavallini?», io avrei difficoltà a ricordare un momento preciso in cui questo accadde. So che accadde, però, ben più di vent’anni fa, perché quando Giorgio andò in pensione nel 2000 non gli ero ancora amico, ma già lo conoscevo bene, e dunque prima di allora. Ma dopo la mia laurea, d’altra parte (1995). Perché, durante il mio corso di laurea, anche se varie volte capitò di incrociarsi, non lo ebbi come mio professore: prima di allora già ci si salutava, ma per solo dovere di cortesia.
C’era, a quel tempo, una divisione piuttosto netta dei corsi di Letteratura italiana. Per provenienza di studi e per taglio del mio piano di studi, io ero destinato ad altri professori. Così, pur conoscendo già di nome e di fama Giorgio Cavallini, quando dovetti indicare il corso di Letteratura italiana che avrei frequentato, scelsi Franco Croce Bermondi. Allora non sapevo (lo avrei scoperto molto tempo dopo) che Franco Croce Bermondi e Giorgio Cavallini, per quelle vicende della vita che ora ci avvicinano, poi ci allontanano e quindi ci riavvicinano, prima di esasere colleghi a Genova erano stati compagni di classe al liceo classico di Sarzana negli anni della guerra.
La mia frequentazione del Dipartimento di Letteratura italiana (il quale, all’epoca, si chiamava ancora “Istituto”) cominciò a essere assidua dopo il 1997. Colloco, dunque, tra quella data e i due-tre anni successivi le fondamenta del bellissimo rapporto di amicizia che mi ha legato al professor Giorgio Cavallini. Mi ricordo che sedeva in uno studio piccolo, non comodo. Era uno studio ricavato negli ambienti della biblioteca, perché – come, lo scoprii in seguito, in casa sua – anche all’Istituto di Letteratura italiana c’era una sovrabbondanza tale di libri che non si sapeva dove metterli, e capitava non di rado a noi dottorandi di dover entrare negli studi mentre i professori vi lavoravano. Con qualche timidezza chiedevamo se ci fosse consentito di cercare fra i libri, silenziosi e sordi alle conversazioni che nel frattempo, negli studi, si svolgevano. Non è che tutti i professori gradissero in eguale modo questa promiscuità di spazi e di funzioni. C’erano, anzi, gli estremi: quelli che questa promiscuità non la gradivano affatto e non ne facevano mistero, tirandosi dietro, con pesantezza, porte scrostate e malchiudenti, e quelli che militavano per una fratellanza universale, una eguaglianza senza confini, che si sostanziava in gesti che oggi, a trent’anni da allora e a quasi cinquant’anni d’età, non possono che apparirmi di qualche goffa esibizione o di spuntata protesta. Cose come fumare nello studio e consentire che tutti vi fumassero: professori, studenti, bidelli… finendo con il discriminare, alla fin fine, i soli salutisti e i non fumatori. Come me.
Ricordo bene, però, che quando mi affacciavo alla porta della stanza studio-biblioteca occupata dal professor Cavallini e chiedevo se non gli fosse di disturbo che io mi cercassi e prendessi due o tre libri, lui mi accoglieva sempre con simpatia e cordialità. «Questo non è il mio studio – mi diceva – questa è la biblioteca». Oppure: «è pubblico. È la biblioteca. Non è il mio studio». Frasi piccole, segni non soltanto di una cordialità naturale e di una capacità di far nascere e crescere relazioni profonde e vitali con gli studenti, cose di cui dirò, ma segni, anche, di un rapporto con le istituzioni, di cui Giorgio Cavallini aveva grande rispetto e di cui sempre si considerò un “servitore”. Era proprio così. Per il professor Cavallini, il “mestiere” del professore era cosa di preparazione e di responsabilità e la responsabilità, questo sentimento sacro del dovere, veniva addirittura prima della preparazione nella sua scala dei valori, perché il professore avrebbe dovuto prepararsi su ciò che non gli fosse stato già noto (e prepararsi a fondo) proprio in ragione di quella molla dentro di sé che rispondeva al nome di responsabilità. Responsabilità verso gli allievi («noi siamo al servizio degli studenti», diceva), responsabilità verso l’istituzione, perché l’Università, per quel che rappresentava e nella parola stessa, aveva per lui un significato di sacralità e perché l’Università, almeno quella a cui Giorgio Cavallini afferiva, era dentro il sistema dello Stato, era una parte fondamentale del Paese. Prendere lo stipendio dallo Stato, come talvolta diceva, per insegnare, voleva dire per Giorgio Cavallini portare la responsabilità dell’insegnamento: esercitarlo, dunque, ogni volta che fosse possibile, in cattedra e non, tra le mura universitarie e quasi ugualmente spesso e certo più volentieri fuori da quelle ed esercitarlo con rigore, con esattezza. «Se il professore sbaglia – mi diceva – ha il dovere di correggersi». In questo modo mi manifestava il suo pensiero. Quell’altro – e cioè quello secondo cui il professore avesse il dovere di correggere anche gli altri, ogni volta che gli fossero a tiro – non me lo manifestava sotto forma di regola, ma ne vedevo spesso la prova. E l’avrei vista, ancora più spesso, prima lavorando con Giorgio (perché ho avuto questo grande privilegio e questa fortuna) e poi (privilegio ancora maggiore) godendo del beneficio ricambiato della sua amicizia.
Nella correzione era severissimo. Correggeva i congiuntivi degli studenti, appesantiti dagli zaini e dai brufoli, sull’autobus e sul treno. Era ubiquamente professore. «Per questo lo Stato mi ha dato lo stipendio», mi diceva. «Per insegnare». E per correggere. Diceva che non si poteva far finta di niente, che non tutto andava sempre bene (benché su standard sempre più bassi si stesse ormai adagiando l’andazzo) e che bisognava dirlo. «Gli va detto. Bisogna correggere quello che non va. Altrimenti è un inganno». Insomma, evitare di correggere le mandrie festanti, e infestanti anche, qualche volta, degli studenti che si assiepavano irruenti sui treni della Riviera, quando l’estate alle 8 e 30 prendeva il treno per l’amata nuotata delle cento bracciate a Vesima, era non una norma igienica, di autotutela, ma un inganno. «Giorgio – lo mettevo in guardia bonariamente – fa’ attenzione che questi ragazzi non è detto che abbiano quel buon carattere che vorremmo e che auspichiamo per loro. E magari non ti ringraziano quando li correggi. Forse nemmeno capiscono. Potrebbero perfino prendersela a male…». Sarei stato, insomma, meno drastico di lui e a questo lo invitavo temendo per lui. Non avrei giudicato la sua omissione di intervento come un inganno o, peggio!, come una offesa al compito affidatogli dallo Stato. Sarei stato più prudente, ecco. Giorgio, però, mi metteva a tacere: «Qualcuno deve ben dirglielo!», fulminava. Cosicché, insegnando un altro po’ anche a me la lezione del coraggio, mi faceva pentire della mia poca diligenza, del mio individualismo, della parvità che non mi apparteneva, ma in cui per un momento ero pure caduto, come in una trappola.
Credo che intorno al 1997-98 avessi scritto una recensione di un suo libro da poco pubblicato. Gliene avevo lasciata copia nella cassetta della posta in Istituto. Secondo mia abitudine, l’avevo accompagnata con qualche rigo manoscritto. Fino ad allora, la conoscenza era stata quella, superficiale e circostanziale, di cui ho detto, ma quella volta, con la sua voce squillante, mi telefonò, mi disse che aveva letto la mia recensione, la lodò, mi ringraziò con grande cordialità e mi disse che gli avrebbe fatto molto piacere se, quando fossi stato in Istituto, fossi andato a trovarlo. Così feci. Mi regalò molti altri suoi libri e da allora capitò sempre più frequentemente di vedersi, di salutarsi, di scambiarsi libri (i suoi, molto importanti, di cui con generosità mi faceva dono) e scritti (qualche mio breve articolo, che, per corrispondergli e per la timida ambizione di farmi leggere – ambizione da giovane, aspirante ricercatore –, gli lasciavo nella solita cassetta delle lettere e che lui molto apprezzava).
A ricordarli oggi sembrano tempi tanto lontani.
Anche per le vie e per i modi che la nascente amicizia fra un affermato professore di ruolo e un dottorando alle prime armi seguiva. Una via fatta di carta, di stampa, di penna, di francobolli.
Quante cose che mi ha insegnato! Ci ho pensato tante volte in questi due anni che sono trascorsi da quando Giorgio non c’è più, ma ci avevo pensato anche prima, perché, nell’ultimo periodo, una malattia crudele lo aveva svuotato della sua memoria e del suo monumentale sapere, dei classici che conosceva a memoria, dei canti di Dante che qualche volta recitavamo quasi a gara o delle poesie di Leopardi, che, se avesse dovuto fare una lista, avrebbe messo in cima, ne sono sicuro, forse appena sopra a Montale; delle parole difficili dei poeti barocchi, della grammatica greca e latina. Giorgio, che ormai viveva sulla sedia a rotelle, pareva il corpo di Giorgio, privato della sua persona.
Credo proprio che sia così. Anzi, ne sono sicuro: le cose che il professor Giorgio Cavallini mi ha insegnato, le cose che il carissimo amico Giorgio mi ha insegnato, sono innumerevoli. Mi pare tuttora un po’ strano, però, che, con tutto quello che sapeva di letteratura italiana e di cui pure tante volte si parlava, gli insegnamenti che di lui ricordo più volentieri e che di sicuro restano più profondi e vitali in me, sono altri. Il senso di responsabilità, soprattutto. Il suo rigore, nelle grandi come nelle piccole cose; un rigore che poteva diventare mania del rigore a guardarlo con superficialità, ma che, ripensandoci, ho capito invece quanto fosse una sua cifra e uno dei pilastri su cui le persone della sua generazione e di quella ancora precedente hanno costruito, per il nostro Paese, una stabilità che nonostante tutto resiste. Rigore che era impegno, che era serietà. Rigore che non conosceva allascamenti, che rifuggiva ogni pigrizia, ogni corrività. Rigore nel lavoro, rigore nell’amicizia.
Parlando di amici e di amicizia, Giorgio aveva un’altra bella virtù, virtù poco comune a Genova, dove – non è canzonatura – un po’ gelosi e un po’ avari lo si è per davvero. Gelosi e avari anche con le amicizie. Mi spiego. Si dice che i Genovesi, schivi, difficili, “selvatici” (lo ha detto anche Renzo Piano, il giorno in cui è stato inaugurato questo nuovo ponte Genova-San Giorgio), quando concedono la propria amicizia, sappiano essere amici, con fedeltà, lungo una vita intera. Credo sia vero. Non sono, però – quegli stessi Genovesi –, inclini a presentare fra loro gli amici, quasi abbiano paura di essere superati e che l’amico diventi poi, dell’amico, più amico. Gelosia? Insicurezza? Proprio quella “selvatichezza” di cui anche Renzo Piano ha recentemente parlato dinanzi ai microfoni della mondovisione? Non saprei spiegarlo, ma so com’è e so che è così. Non era così per Giorgio, però. Gli amici di Giorgio – lui avrebbe voluto – dovevano essere tra sé amici e Giorgio stesso creava le condizioni perché questo accadesse; condizioni di sodalizio, di frequentazione, di reciproca stima, che alimentava parlando bene degli uni agli altri e riunendoci tutti. Con Massimo Meattini, con Barbara Guglielmo, con tanti altri, che oggi non sono potuti essere qui con noi, è accaduto proprio come sto dicendo: Giorgio ha favorito la nostra amicizia, che a lui dobbiamo. Giorgio è riuscito nel suo intento di far diventare amici gli amici, che era forse un altro dei modi da lui praticati (con la scrittura) per sopravvivere al presente e per continuare a esistere nel futuro. Una delle sue invenzioni per sfidare l’incerto equilibrio della durata, se è vero, e lo è, che ogni volta che ci incontriamo, con Barbara, con Massimo, parliamo di Giorgio, ricordiamo i suoi insegnamenti, le sue battute, i suoi “motti”. Era un’altra forma di generosità di cui era dotato: era generoso nel seminare germi di amicizia tra i suoi amici, così come era generoso nel raccontare il suo sapere e le emozioni di una nuova lettura. Anche i libri faceva incontrare tra loro. Anche i lettori dei libri. Mi parlava dei Sillabari di Goffredo Parise, che amava per la limpidezza della scrittura, ma amava anche Gadda, quest’ultimo per la fantasia della lingua e dell’immagine, e Campanile e Flaiano, per l’arguzia che sempre lo faceva ridere. Fu Giorgio a farmi conoscere Raffaele La Capria, che ebbi poi la gioia di incontrare di persona nella sua bella casa romana, accolto con meravigliosa cordialità, e l’onore di riuscire a persuaderlo a venire al Palazzo Ducale di Genova per una sua lectio magistralis, nel maggio del 2012, al tempo in cui collaboravo con la Fondazione Garrone. «Ferito a morte – mi ripeteva Giorgio – ferito a morte», rievocando il titolo del più famoso libro di La Capria, non senza, però, apprezzare il La Capria più recente, non più bisognoso di dimostrare niente a nessuno e quindi ancora più semplice, quintessenziato, puro di una purezza essenziale. Il La Capria della Neve del Vesuvio, con cui chiudevo i miei corsi di Letteratura italiana nella sede padovana di Boston University, appena prima di salutare (per sempre) i miei studenti prossimi a tornare negli Stati Uniti. Fu Giorgio a farmi conoscere Vincenzo Guerrazzi, altro grande, geniale amico, pittore e scrittore, di cui Giorgio diceva che «aveva un diamante nella capa»; a riconoscere, ancora precoce, il talento di Giuseppe Lupo, allora al suo primo romanzo e oggi premiato, eccellente autore di levatura nazionale e internazionale. Mi presentò a Sebastiano Mondadori, che aveva esordito nella narrativa con storie vivaci e prosa brillante, a tutti i suoi amici cattedratici, sparsi tra le Università di tutta Italia, ai professori Raffaele Giglio di Napoli e Giorgio Baroni di Milano. Aveva, infatti, contatti cordiali e colleganze maturate in amicizia quasi ovunque, ma quasi più fuori Genova, da cui gli piaceva uscire, saltando sull’Intercity alla volta di qualche convegno. Oppure per le vacanze, sobrie e ordinate in ogni caso, prima di mare, poi di montagna, a Cortina.
La mia casa editrice compiva i suoi primi passi e Giorgio, da mio sostenitore, voleva aiutarmi facendomi mettere in catalogo libri importanti, di autori importanti. Lui stesso pubblicò quattro libri con me: L’uomo delle mimose. Sei studi su Francesco Biamonti, con introduzione di Alberto Beniscelli, nel 2007; Registri stilistici da Dante a Pirandello e altri del Novecento, con introduzione di Raffaele Giglio, nel 2009; La magia della letteratura e i suoi autori, sempre con introduzione di Raffaele Giglio, nel 2012; infine Nuovi scritti e pagine scelte, con introduzione di Alberto Beniscelli, nel 2014. Al primo di questi, su Francesco Biamonti, che fino ad allora avevo conosciuto e letto un po’ superficialmente, devo la gioia della scoperta di quelle pagine scabre de L’angelo di Avrigue (1983), Vento largo (1991), Attesa sul mare (1994), Le parole la notte (1998), Il silenzio (non finito e postumo),scolpite a sicuri colpi di scalpello. Si diceva che Biamonti vivesse o fosse vissuto coltivando mimose. Era una leggenda, che circolava, ma tutti, meno i più ingenui, sapevano che era stata messa in giro da un editor dell’Einaudi – alcuni dicevano che in quella leggenda c’entrasse addirittura Calvino – per rendere più interessante la sua scoperta. Non era mai stato vero, anche se era vero che nessuno aveva mai capito di che cosa avesse vissuto Biamonti fino al giorno in cui, non più giovane, era diventato dalla mattina alla sera uno scrittore celebrato e famoso. A Giorgio, leggenda o verità, un talento che si manifestava come naturale piaceva. Lui amava – l’ho già detto – la “semplicità”. Proprio come – lo ricordavo – lo aveva colpito la scrittura di Guerrazzi, così lo colpivano i semplici che riuscivano a essere puri e i sapienti che riuscivano a ritornare semplici.
Non mi chiese mai, come tanti altri hanno fatto dopo, perché mi fossi “inventato” il mestiere difficile dell’editore e non ebbi, dunque, mai modo di rispondergli, così come ho risposto a tanti altri che me ne hanno chiesto, dopo. Forse sapeva che, pur nella grande differenza di anni, di esperienza e di sapere, condividevamo per natura un’attitudine, che poteva essere anche una frenesia o, come lui diceva, “una mania”: quella di non far disperdere le parole; o addirittura quella – nobile, visionaria, velleitaria – di metterle in salvo.
Di lettere si parlava: di esempi buoni e di esempi cattivi. C’erano volte in cui si commentava insieme le lagne di qualche poeta. Più facile era che fosse qualche poetessa. In quanto professore di letteratura italiana, severo sì, ma anche disponibile, Giorgio Cavallini riceveva continue istanze da parte di scrittori in erba, poeti e aspiranti tali, versificatori, lirici soi disant. E più ancora erano le poetesse. Una vera piaga, in qualche caso. Lo sollecitavano con richieste di prefazioni, introduzioni, premesse, giudizi. Lo lusingavano con doni di libri e inviti a colazione e pranzo. Lo volevano accanto a sé in simposi e presentazioni, durante le sospirose letture di poesie che avevano l’io della scrivente quale centro del mondo. Altri al posto suo avrebbero declinato. Alcuni – ne conosco – avrebbero riso. O sorriso. Giorgio, invece, era disponibile, si concedeva e poi, quando era al tavolo dei relatori o seduto in prima fila, cominciava a sospirare. Quando partiva la sequela dei sospiri, gli sdilinquimenti, le impostazioni delle voci e le poetesse incipriate, per solito d’età, prendevano il fiato (risucchiandolo attraverso la dentiera), Giorgio era già stufo. Non s’andava oltre i primi tre versi: si accorgeva che la metrica non tornava, loro si difendevano con il dire che era “licenza poetica” e che la lirica era troppo ribollente in loro, ribollente di voler essere detta, per soffermarsi e obbedire alla forma. Lui non ascoltava nemmeno più. Non si curava di nascondere le sue insofferenze, i suoi “uffa” dinanzi alla malagrazia di quelle signore e del loro goffo travestimento “alla Leopardi”. «Io, io», diceva, «sempre io. Questi poeti non sanno che dire io». E qualche volta mi diceva anche: «questi poeti sono insopportabili». Lui rispondeva all’invio delle loro poesie – Giorgio rispondeva sempre e a tutti, come fosse un suo sacro dovere: ricordo che arrivò a rispondere anche agli auguri che a Natale gli inviava, come agli altri 10milioni di utenti, Vodafone… – ma ecco, lui rispondeva, per cortesia, con la sua grafia sottile, minuta, ordinata, e quelle erano pronte a mostrare a tutti il retro della cartolina su cui “il professore” aveva espresso la propria riconoscenza e, dunque, il suo apprezzamento. «Bisogna stare attenti!», mi diceva. Ed era vero: lui scriveva, per formula di cortesia “grazie per il bel libro, fresco di stampa, che mi ha fatto piacere ricevere questa mattina con la posta” e loro esibivano le sue lettere, fregiandosi del fatto che “il professore”, ordinario di Letteratura italiana all’Università di Genova, aveva detto, anzi scritto, che il libro era bello e che gli era piaciuto.
Ci sarebbero molti episodi divertenti che vorrei ricordare e che sempre ricordo, perché ricordarli è ricordare tratti vivissimi della personalità amica del caro Giorgio, così che, quando mi capita, quasi mi pare di riaverlo qui con noi. Ricordo, per esempio, quando convocò gli amici per un consiglio, poiché doveva acquistare una nuova automobile. Venne a casa sua un ragazzo, un giovane venditore di automobili, e Giorgio lo ebbe subito in simpatia. Come faceva di solito, gli offrì qualche bevanda, in salotto, gli chiese per filo e per segno condizioni e prezzo. Poi su questo trattò al ribasso, peggio che un sensale di granaglie. Non che Giorgio fosse avaro, ma era prudente come tutta la generazione passata attraverso i rigori della guerra. Ed era essenziale. Ricordo che a quelli che non sapevano regolarsi a tavola o a cui non bastavano i soldi causa indulgenza ai piaceri dei buoni cibi, Giorgio opponeva il suo «con l’uovo e con la patata vai da tutte le parti». E così fu quella volta con l’auto. In omaggio alla sua essenzialità, Giorgio alzava di poco la cifra che era disposto a spendere e il venditore ogni volta toglieva e tagliava. Via la vernice metallizzata, via il volante speciale, via l’allestimento bicolore dei sedili, via… : ogni lusso, ogni vanità veniva via via cancellata. «Ovviamente le ruote dovrò lasciargliele» sbottò a un certo punto, stretto all’osso e messo alle corde. Giorgio osservò che “ovviamente” era meglio che non fosse usato, ma che sì, certo, delle ruote c’era bisogno. Allora il venditore tirò fuori da una cartelletta un contratto di venti pagine e glielo passò. Sospirava. Ce l’aveva alla fin fine fatta. Giorgio guardò il contratto, lo soppesò, trasecolò dinanzi alla stampa in corpo 7 e disse: «e io dovrei firmare senza leggere?».
Punto a capo. Il venditore fu riconvocato dopo un paio di giorni. Solo allora la vendita andò finalmente in buon porto.
Parlavamo di poesia e Giorgio manifestava tutta la sua insofferenza dinanzi alla retorica travestita di poesia, che era insofferenza per la mancanza di vera ispirazione; per la mancanza di autocritica, di severità verso se stessi (lui che tanta ne applicava con sé). Era insofferenza per chi non sapeva vestirsi di “semplicità” (virtù che amava e che approvava) e si fregiava, invece, di pizzi e di merletti non propri.
Non dico degli sdilinquimenti, del simulato “male di vivere”: credo che non li potesse soffrire. A tutta questa paccottiglia – tale la considerava – Giorgio opponeva uno dei suoi “motti”. Diceva: «io voglio stare allegro!». Tra i “motti” ce n’erano di bellissimi, di riusciti, di esatti (e uso la parola nel senso che a lui piacerebbe, perché ricordo bene quanto lo innervosisse sentire gli studenti prorompere in “esatto!”, come se si fosse a un quiz). Noi li ricordiamo spesso tuttora. Sono entrati a far parte del nostro lessico famigliare. Per esempio, riguardo agli atteggiamenti troppo intraprendenti di certe donne moderne. Le criticava per una certa frenesia eccessiva, per un dover parlare sempre e comunque, anche vanamente, per quel parlare sempre al cellulare, mentre magari – come diceva – si dimenticano del passeggino che va a finire in strada. Le criticava e, quando te le raccontava, erano piccoli quadri di vita di ogni giorno, di psicopatologia della vita quotidiana. «Io sono per le donne – cominciava e premetteva – figurati se io non sono per le donne, però…» E qui lasciava cadere la sua critica. La premessa funzionava sempre. Quel «io sono per le donne, figurati se io non sono per le donne» ti strappava un sorriso. E anche la critica che subito seguiva, se pure aveva rischiato di esserlo, diventava meno pedante; più accettabile, più efficace. Gli altri ridevano. Perfino le donne. Lui, però, lui non rideva. Quando riferiva delle donne troppo impegnate, Giorgio ne era sempre un po’ preoccupato, per davvero … Gli pareva che il mondo stesse perdendo le regole della sua tradizionale saggezza e questo non gli piaceva. Non poteva piacergli.
Le poetesse, invece, lo facevano ridere. Per opposizione, non foss’altro. Leggeva due pagine, gettava il libro su uno dei suoi vecchi mobili, stipati dei libri che ora sono qui – gli altri libri, quelli importanti, quelli che amava. Gettava in un canto, tenendo ben separato il buon grano dei classici dal loglio dei poetastri. E diceva quella frase «Io voglio stare allegro!», di cui soltanto molto tempo dopo ho capito il senso. C’erano stati fatti, nella sua vita regolare e bella, intessuta di affetti famigliari saldi, a cui Giorgio aveva partecipato da vicino e pure in prestito, che erano stati ferite profonde. Lasciando l’Università, al fondo della pagina con cui introduceva il piccolo libro Scritti di servizio di cui i colleghi del Dipartimento gli avevano fatto dono, Giorgio scriveva, un po’ come in una epigrafe, eppure con la semplicità densa che soltanto le parole di ogni giorno hanno: «Un pensiero affettuoso, profondamente grato alla cara memoria dei miei genitori, Luigi e Maria Bandini, di mia sorella Brunella e di mio nipote Nicola Simeoni: tutti se ne sono andati via, per un viaggio senza ritorno; ma tutti sono sempre vivi e presenti nel mio cuore».
Il 1° luglio 1985, mentre viaggiava sulla sua Fiat 125 con la moglie verso Napoli, sua città d’origine, il vicequestore di Sanremo Gennaro Simeoni, da tutti stimato per la sua irreprensibilità e per il suo merito, si scontrava in un frontale con una Alfasud. Moriva quasi sul colpo. Con lui, poco dopo di lui, la moglie Brunella Cavallini, sorella di Giorgio. Il loro figlio Nicola, improvvisamente orfano, moriva nel luglio del 1989, a soli 27 anni, dopo una crudele e fatale malattia. Giorgio non voleva parlare di questi dolori. Non ne parlava mai. I suoi cari – come scriveva – li aveva sempre nella memoria e nel cuore, così come pensava spesso a quel passo che loro avevano affrontato tanto precocemente e ingiustamente e contro regole ritmi della natura, ma proprio perché quella sofferenza si era incisa in lui, lui diceva di voler “stare allegro”. Uno sforzo di volontà, appunto, un voler stare allegro: volere, per lui, era tanto spesso uguale a dovere. E così, infatti, era. Giorgio era allegro, sapeva essere allegro, amava essere allegro. Il senso dell’amicizia, che coltivava e che verificava, era qui dentro, dentro questo suo sistema di valori. Gli amici erano il suo presente e il suo futuro: come non avrebbe saputo stare senza libri e senza lettere, Giorgio non avrebbe mai saputo stare senza amici. Li metteva alla prova, qualche volta, li iscriveva e li cancellava sul quaderno dell’amicizia, ma sempre dava loro un’importanza straordinaria e ne faceva una parte importante della sua vita.
Oltre un certo limite, raggiunta una certa età, anche la scrittura assunse questo significato. Gli serviva a sviluppare il suo pensiero sugli autori della letteratura italiana, certamente, così come aveva fatto prima e come continuava a fare poi, ma gli serviva ancora di più a tenere viva una rete di relazioni di amicizia che avevano sostanza nell’invio di un nuovo libro al vecchio collega, nell’attesa della sua risposta e nella risposta che Giorgio dava alla risposta; o nella pubblicazione di una delle sue numerose plaquette di “versi” – non li chiamava “poesie”, ma “versi”, ed erano raccolti in libretti formato 10×15, di venti pagine al massimo, vestite di copertine colorate. Il “verso” corrispondeva alla tecnica, si definiva nel rispetto alle regole della metrica e della prosodia. La poesia è quella cosa che ti riconoscono gli altri quando arrivi giù giù, fino a commuoverli; non te la dici da solo. Non “poesie”, dunque, ma “versi”, molti dei quali poetici e alcuni, di sicuro, vere e proprie poesie, ma – per sua esplicita scelta – solo e soltanto “versi” nella definizione che Giorgio scelse per sé. Ne conto almeno 22, ventidue libretti colorati, tutti stampati presso Glauco Brigati, tranne forse l’ultimo, che preparai io, in fretta e furia, per uno dei suoi ultimi compleanni celebrati con gli amici, appunto, con gli amici “venuti a festeggiarmi”, come scriveva nel titolo. Ventidue più qualche foglio sparso; qualche addendum che si inseriva tra le pagine, perché l’opera non aveva mai fine ed era fluida, com’era fluida l’esperienza giornaliera della vita, che nei “versi” Giorgio aspirava a raccontare per condividerla e per renderla di nuovo fluente, dentro l’amicizia, che tornava a ricomporsi anche per l’occasione di una nuova uscita di “versi” o in preparazione di “versi” “nuovi” o “d’occasione” – come gli piaceva chiamarli.
I saggi che aveva scritto su Manzoni e Leopardi e Goldoni – gli amatissimi Manzoni, Leopardi e Goldoni – erano lavoro. I “versi” erano la vita vera e reale degli amici riuniti per un compleanno, una presentazione di libro, uno scambio di panettoni, una gita al margine di un convegno, un pranzo, evocati in un gesto, celebrati per un risultato, una meta della vita. Per me scrisse “versi” quando mi sposai, quando nacque mia figlia Giulia, quando capitò che con Giulia bambina andassimo a trovarlo e in varie altre occasioni. Sono gli amici i protagonisti dei “versi” di Giorgio e sono proprio questi “versi”, ai quali evidentemente teneva, così come teneva agli amici, più ancora che ai libri che lo avevano reso professore celebrato e di fama, che, nelle sue volontà ci ha raccomandato di ristampare. Così come ci ripromettiamo di fare.
Voglio dire che in futuro torneremo certo su questi “versi”, molti dei quali sono senza dubbio “poesie”.
«Non scambiare i ruscelletti per le fonti», «leggere e rileggere», specie i classici, perché il piacere della lettura fosse sentito prima e poi, tornando alle medesime pagine, già note, apprezzato e approfondito, sempre più e meglio, con minore tensione, con più gioia, dopo che il ghiaccio era rotto. Leggere qualche volta scorrendo il libro, altre volte soffermandosi su ogni parola. Leggere con concentrazione, leggere evitando ogni passività (esiste una lettura passiva? Forse no, concludeva)… Trovo questi consigli, di cui tante volte diceva e che certo metteva ogni giorno in pratica, nelle «Motivazioni alla lettura», uno dei capitoli più importanti e formativi del suo Scritti di servizio, il volumetto, introdotto dall’allora direttore di Dipartimento di Italianistica prof. Vittorio Coletti, che gli fu donato a celebrazione del suo pensionamento – o della sua “messa a riposo”, come scriveva Vittorio Coletti, facendo ricorso all’uso sorvegliato della lingua. È una pagina di consigli che sarebbero tutt’oggi da mettere sotto cornice: la lettura aiuta la decodificazione di idee passivamente sedimentate in noi e favorisce la scoperta della verità; il libro è un messaggio che viene da lontano; il libro è un ponte fra passato e futuro, è interdisciplinare, riscatta la parola dal suo “consumo standardizzato e massificato, ridandole individualità e spessore” e via così. Tante piccole (ma grandi, in vero, la maggior parte) perle di saggezza sul libro, la lettura, la parola scritta e la sua durata. L’ultima è, come spesso, la più forte. Dice che il libro è come uno specchio. Ti costringe a metterti di fronte a te stesso e a «guardarsi in faccia senza veli» (Scritti di servizio, p. 19).
Altrove in Scritti di servizio si pone il problema della lettura e della distanza tra i giovani e i libri. Sono passati vent’anni da quando Giorgio Cavallini si poneva quel problema e scriveva quelle parole e la distanza tra i giovani e i libri è indicibilmente aumentata. È aumentata anche la distanza tra quelli che allora erano giovani e che ora, vent’anni dopo, lo sono meno o non lo sono più. Erano distanti quando Cavallini scriveva; oggi non so più vicini. Ma il professore Giorgio Cavallini, forte della sua esperienza di scuola e poi di Università, di casa e di libri, dava ricette di amore per la lettura, suggerendo, per esempio, di promuovere letture pubbliche, che favorissero la socialità attorno al libro. Il fatto che la lettura sia vista come attività solitaria e controsociale, scriveva, è, infatti, uno dei peggiori ostacoli che si frappongono fra chi vorrebbe leggere e il libro; che più intralciano l’aspirazione ingenua degli aspiranti lettori. Siamo in una biblioteca, siamo qui a celebrare il Giorgio Cavallini lettore e donatore di un fondo librario che a San Salvatore resterà, legato alla sua memoria, e che un po’ vorremmo si consumasse (lo si dice con bonarietà), come accade ai libri molto letti, fra le mani delle giovani generazioni. Trovo giusto chiudere sul tema dei libri. Trovo giusto, parlando di libri, parlare anche di lettura e molto appropriato mi pare che il donatore, che oggi ricordiamo e celebriamo, ci offra spigolature di sicuro successo nella promozione di una lettura che amalgami invece di separare, che “assembri”, invece di “distanziare” (coronavirus a parte!). [stefano termanini]