“Parlare di sofferenza non è facile”, diceva Maria Cicconetti, qualche giorno fa soltanto. Pareva preoccupata, nonostante fosse questa dello scorso giovedì 18 aprile, alla UILDM di Chivasso, forse la sua trentesima presentazione. “A chi soffre non è facile parlare di sofferenza”, diceva.
Non è facile mai, in realtà. Guardiamoci attorno: chi ne ha voglia? Chi ha voglia di sentir parlare di sofferenza? Il mondo gira da un’altra parte. Il mondo “si gira”, anzi, troppo spesso, dall’altra parte.
Ho detto a Maria di non preoccuparsi. Ne La foto che non c’è non si fanno sconti alla sofferenza. Ci si passa in mezzo. Dall’abbandono alla perdita; dalla malattia, al perdono, la protagonista de La foto che non c’è cade e ricade. Eppure non si sporca mai; eppure ha sempre chiaro dentro di sé, anche quando la sofferenza è acuta, che c’è dell’altro. Oltre la sofferenza, che non dura per sempre, e oltre la prova fatale del perdono, ci sono, infatti, la serenità, la guarigione, la capacità – addirittura – di alleviare la sofferenza altrui.
È vero, Maria, non è facile parlare di sofferenza. Nel libro lo si fa, però.
Ha spiegato quale sia l’attacco della storia Renato Dutto, giornalista, presidente UILDM di Chivasso, che ha introdotto l’incontro e il libro, mettendone in luce i valori, senza mai svelarne la trama. De La foto che non c’è ha letto la prima pagina, che è quella dello strappo: dal sole dell’infanzia, un infanzia povera, eppure lieta, Maria viene improvvisamente sottratta. Chi dovrebbe difenderla, la dà via. Chi dovrebbe amarla, la scarica in un istituto, come fosse un oggetto troppo ingombrante.
La sera di giovedì scorso, il pubblico era composto di amici, di persone a Maria vicine per sensibilità, ma desideroso, anche e sempre, di conoscere e di sapere. “Come sei riuscita a descrivere tante dimensioni diverse della sofferenza e dell’abbandono?”, ha chiesto Alessandro Bena, past presidente di UILDM Chivasso. Maria ha conosciuto ciò che ha scritto. Maria ha fatto esperienza delle cose, prima di misurarsi con le parole, dentro alle quali quella esperienza avrebbe messo. Ecco perché la sua scrittura è forte. “Mi ha sorpreso soprattutto la forza di queste pagine, anche se la loro forma, al principio, richiedeva ancora tempo e meditazione. Anche se c’erano parti da rivedere, da rifinire, c’era, fin dalla prima volta che ho letto la storia di Maria, una forza intensa, genuina, reale dentro le sue pagine”, ha detto Stefano Termanini, rispondendo a una sollecitazione di Renato Dutto, che gli ha chiesto quale sia stata la prima impressione tratta dalla lettura del libro di Maria e le ragioni che lo hanno spinto a scegliere quel manoscritto, tra i tanti che bussano alla porta di una casa editrice, perché diventasse un libro. “C’era, in quelle pagine, forza e desiderio di trascendere il male – dice Stefano Termanini –, perché la Maria che è protagonista di questa storia non si lascia mai andare, anche quando lasciarsi andare sembrerebbe più facile, addirittura più naturale. Sa che può trasformarsi. Sa che la crescita, l’evoluzione, il cambiamento sono qualità dell’uomo”.
Di straordinaria intensità – e bellezza, e forza – la testimonianza di Alessandro Bena, che Maria Cicconetti ha pubblicamente ringraziato (“devo a te, Alessandro – ha detto – il fatto di aver capito tanto della sofferenza. Non sono stata io ad aiutare te, ma sei tu che mi hai aiutato”). “Sapere di poter comunque essere d’aiuto ad altri”, ha detto Alessandro Bena, “è da questo che attingo la forza per alzarmi, ogni nuova mattina, e qui dentro cerco il senso della mia vita”./[s.t.]