Quando, nel maggio 1935, compare sui giornali la notizia che vedrà presto la luce della stampa il “Libro segreto” di Gabriele d’Annunzio e che sarà tutto nuovo, la curiosità dei lettori e dei critici vibra e freme. D’Annunzio aveva scelto fra le pagine che nel tempo aveva messe da parte, coperte di annotazioni; una specie di diario. Stava per tirarlo fuori, per renderlo finalmente pubblico: ci sarebbe stato lui, per com’era davvero, o un’altra delle sue infinite maschere?
Confessava a Arnoldo Mondadori: «La scelta è l’operazione più difficile dell’intelletto. E i miei occhi soffrono nel cercare. […] Ma oramai ho trovato il ritmo del libro; e mi basteranno sette o otto giorni di lavoro per compirlo» (25 nov. 1934). Vediamo qui la “bottega” del libro, il libro che nasce e che si fa. D’Annunzio prende, trascrive, monta, rielabora, invia al suo editore «fasci di pagine». L’editore gli rende, a stretto giro di posta, bozze tipografiche, che egli ritocca e aggiusta. O integra con aggiunte. Seguendo il “ritmo” che ha trovato, inventa un modo di scrivere originale: finisce le frasi con il punto, le riprende con la lettera minuscola. Forma, forgia nuove parole, secondo l’istinto momentaneo; parole nuove, inseguendo immagini vecchie dentro di sé, che il poeta vuole rinnovare. La sua prosa è poetica, così come alla letteratura avevano insegnato a fare, sopra a tutti, gli esempi francesi; la lingua, sapientissima, pare ad alcuni «una bottega di antiquariato» (A. Panzini). Altri osserva che il “Libro segreto” non ha che due temi: l’amore dell’amore e la paura della morte. Ed è così, in effetti, e non altro desiderava il suo autore.
Torna spesso il tema delle rondini, «tema di tutto il libro» (De Robertis). Scrive D’Annunzio, nella prima pagina, ricordando la sua casa natale: «La cornice della mia casa natale sportava in fuori tanto che le rondini l’avean rilavorata con la loro arte argigliosa soprapponendo alle gole ai gusci agli ovoli ai dentelli alle altre modanature senza grazia l’opera de’ nidi vivente».
Il “Libro segreto” aveva alle spalle una tradizione illustre: i frammenti di Leopardi, Baudelaire, i poemi in prosa di Rimbaud. I critici – alcuni, almeno – d’Annunzio lo avevano ormai di mira come «uno dei maggiori ostacoli» al rinnovamento della nostra letteratura (L. Guisso). Ma, pure, quelli che si erano messi in testa di scrivere diversamente e di prenderne le distanze, i “giovani” che sarebbero venuti dopo di lui, ne avevano imparato moltissimo. Emilio Cecchi, per esempio.
Vi sono, tra le pagine del “Libro segreto”, meno noto del “Notturno”, ma più estremo nello stiramento che d’Annunzio impone alle immagini e alla sua lingua, pagine autobiografiche, quasi un’automitologia, e lampi di vera ispirazione. A proposito della conoscenza e di che cosa sia, l’autore si interroga: « Qual dunque è il modo di conoscere? / Scoprire il segreto dell’Universo mal nato ne’ granelli della sabbia, nelle granella della spiga o nelle stelle della costellazione Spica Virginis, in un acino d’uva, nell’ombra di ciglia chine; / scoprire il segreto dell’angoscia nel cuore d’una rosa divorato da una cetònia non meno bella de’ petali cadenti; / accogliere l’infinito nel cavo della mano che tiene l’acqua piovana o la rondinella caduta dalla gronda; / vivere l’eternità in un’ora diurna, in un’ora notturna; / uccidere l’oscuro iddio sotto i ginocchi della preghiera.»
Non è che la poesia debba essere fatta di soli versi. Le immagini delle rondini, che «a saetta rasentano l’erba e si risollevano con un grido che sembra beccare un acino dell’ultima luce», si imprimono nella memoria. Non è bravura soltanto. L’infinita, l’ammirevole capacità di far con la lingua quello che si vuole (dicono testimonianze degne di fede che d’Annunzio il vocabolario se lo leggesse, come un romanzo proprio; che se lo tenesse sul comodino…) è la sfida imperterrita a far dire alla lingua quello che si vorrebbe rivelasse: «Chi mai saprà dire la forza laceratrice delle rondini in un vespro d’estate?». [stefano termanini]