Franco Monteverde ci ha lasciati giovedì scorso. Era nato a Genova nel 1933, dove era stato consigliere comunale, assessore al Bilancio del Comune, direttore dell’Istituto Gramsci ligure, quindi – e per molti anni – del Centro di Cultura La Maona. Alla direzione de La Maona ho avuto la fortuna – ma più ancora, voglio dire il privilegio – di conoscerlo e di lavorare con lui. Era straordinaria la sua curiosità, ha scritto, nella sua commemorazione Luca Borzani, ed è certamente vero. La curiosità di Franco Monteverde era instancabile e “trasversale”: se il suo volere era saldo e forte e se, quando si metteva in mente di raggiungere un obiettivo, fermamente lo sapeva perseguire, la sua curiosità gli permetteva di divagare (qualche volta) e apprezzare (sempre) tutto ciò che avesse valore d’intelligenza e di cultura. Anche se apparteneva a visioni, campi, “professioni di fede” lontani dai suoi.
Con La Maona si lavorava per un progetto di città. Ma si lavorava anche per il Progetto Appennino. La cultura – credevamo – avrebbe dato a Genova una dimensione nuova; l’avrebbe rilanciata, perché erano passati gli anni dell’industria fumosa e, pur senza negarne mai l’importanza e il ruolo, si aspirava a una città consapevole delle proprie radici e forte su quelle. Genova come capitale della cultura: ci fu – era il 2004 – e La Maona fece la sua parte. Ma continuò a farla anche dopo e per molto tempo ancora.
Nel 2016 Franco Monteverde pubblicò la sua autobiografia, Come sono andate le cose. Ci lavorò a lungo, pazientemente. Decise di darsi due estremi cronologici: la fine dell’Ottocento, da una parte, e il 1960 dall’altra. Si era scelto l’obiettivo di risalire indietro nel tempo, molto prima della sua nascita, perché quelle origini, dinanzi al tempo che sentiva assottigliarsi dinanzi a sé, gli parevano forse più prossime del presente e, quasi certamente, del futuro. Cominciò così a scrivere un racconto in cui Genova era (ed è, nel presente infinito di quelle pagine) raffigurata attraverso le parole di Dino Campana altrettanto bene che con i rumori del lavoro quotidiano, i suoni che risalgono da Caricamento, le voci della Ripa, piazza Banchi, dove si reclutava il lavoro portuale, il palazzo San Giorgio. La Genova dell’infanzia di Monteverde è popolata di negozi dai molti colori, ricchi di frutta e di pesce, da rosticcerie, friggitorie, tripperie. Un mondo che si narra e che non c’è più. Un mondo che, nel libro, si celebra, ma non si rimpiange, perché Monteverde sapeva che il tempo va avanti e che non c’è niente altro da fare, se non prenderne coscienza, nella sua metallica realtà.
Eppure gli era piaciuto, scrivendo quel libro, a Franco, ritrovare nella memoria i volti di tanti amici scomparsi. I modi, i caratteri, i tratti dei nonni e dei genitori, cui dedicava pagine equilibrate e affettuose. E poi, alla fine del libro, con quel salto che porta il lettore dal 1960 al 2016 (“ma sei sicuro di voler staccare così, Franco? – gli chiedevo rileggendo le bozze – proprio come fosse il taglio di una pellicola?”. E lui, che tanto amava i film, mi diceva di sì, che ne era proprio sicuro), Franco si chiedeva che cosa gli rimanesse di quella sua strada, lunga ormai ottantadue anni. I ricordi, rispondeva. Quelli della fanciullezza, che restano in noi come i più nitidi. Gli affetti: la famiglia e gli amici, che ne fanno parte. “Una rete di affetti… rimasta viva, anche se relegata per tanti anni … al di sotto del pelo dell’acqua”, scriveva Franco in queste ultime sue pagine. E rifletteva sulla condizione della vecchiaia, che ci rende più fragili nel fisico, ma che pure ci lascia “inalterata” la capacità di leggere, scrivere, meditare. Con libertà, pensava a Genova, all’Italia, alla Francia, citava Benedetto Croce e Ennio Flaiano; e vi tornava, concludendo che, pur forse appartenendo a un mondo ormai in declino, per lui c’era ancora da fare. “Certo – diceva a se stesso e al suo lettore – la vecchiaia restringe gli orizzonti, il tempo che resta sembra volar via veloce; tuttavia sento che posso stare sulla piccola nave della mia vita senza desistere dall’impegno di scrivere e di riflettere sulle esperienze del passato” (p. 211).
E, infine, rifletteva sulla soglia. Su quella soglia che giovedì scorso, Franco, ha varcato. Sull’aldilà, su le pari di Pascal, su Dio, sull’immortalità. “Vivere così a lungo – concludeva – mi ha consentito di produrre molte idee che rappresentano la mia immortalità; infatti il mio pensiero potrà continuare a vivere sulla terra attraverso coloro che intendono ricordarlo”.
Oggi, la lucidità di quelle parole non può che colpirci. Ed è proprio così che facciamo, caro Franco, noi tutti che abbiamo imparato da te e che ti siamo stati affettuosi amici. Ti ricordiamo, nella tua persona e nella tua azione, nel tuo pensiero; nel tuo insegnamento. [stefano.termanini@gmail.com]
Riproponiamo qui il video integrale della presentazione del libro di Franco Monteverde Come sono andate le cose, al Palazzo della Meridiana, il 19 aprile 2016.