Era tempo fa. Tanto tempo fa. Scriveva Johan Jakob Bachofen (1815-1887), archeologo e antropologo svizzero, nell’introduzione della sua opera più celebre e sconvolgente, “Il Matriarcato”: «Dalle epoche maggiormente conosciute dell’antichità veniamo rimandati a periodi più antichi; da un mondo di pensiero che ci è noto, a un altro interamente diverso e più remoto. […] Un mondo sconosciuto si apre al nostro sguardo».
Lo studio di Bachofen è, in vero, l’ambiziosissima ricerca di un autore straordinariamente sapiente ed erudito, capace di spaziare dalle testimonianze sul «diritto materno» dell’antica Licia all’analisi dei miti e alla corrispondenza con le posizioni dei corpi celesti; dall’idea di “fratellanza” presso gli antichi abitanti di Creta all’influsso sul benessere dello Stato della ginecocrazia (e al suo significato immateriale, svolto in coerenza con il concetto di “madre natura”, che poteva riferirsi, con significati diversi, ora alla terra ora alla luna). In Egitto – Bachofen deduceva e teorizzava – avevano dominato le donne e la figura mitologica di Demetra, la dea delle messi, figlia di Crono e Rea, era stata «base e modello» di un’intera civiltà. Poi qualcosa era accaduto. Alla società femminile, pacifica, armoniosa e gentile, era subentrata la società maschile; ne erano venuti il mito della forza fisica, della violenza e della guerra. Omero, con i suoi eroi che si combattono sotto le mura della città di Troia, con le sue mitologie di guerrieri, di elmi, lance e spade, è – rispetto alla storia che Bachofen si proponeva di far riaffiorare – un moderno.
Tra Omero, Gabriele d’Annunzio, il generale Armando Diaz, Winston Churchill, Thomas Woodrow Wilson e Franklin Delano Roosevelt (tanto per dire) non passa alcuna soluzione di continuità. C’è un abisso, invece, tra Omero e la Mater Matuta, la dea che accoglie il Sole quando nasce, la madre dell’aurora e la protettrice del parto, o le “madri” di Capua, che discendevano dal culto di Leucotea, la dea “che scorre sulla schiuma del mare”, nutrice di Dioniso bambino. Quel che ce n’è giunto, l’immagine trasmessaci dalla statuaria italica ed etrusca – splendida, talvolta, e più misteriosa, come nella figura conservata presso il Museo Archeologico di Firenze – è perlopiù la pallida e tarda sinopia di culti precedenti che onoravano, in Sardegna, la Grande Madre mediterranea, Ashtoreth in Fenicia, Astarte a Malta, Ishtar in Mesopotamia, Atar in Arabia, Hator nell’Antico Egitto.
Franco Cascini nel suo «Viaggio nell’Età dell’Oro», Serel | Stefano Termanini Editore (lo trovi qui: https://bit.ly/3yeLFaF ) riprende questa idea, prima di Bachofen e poi di Marija Gimbutas (ispirandosi, in particolare, a un libro celebre e discusso: The civilization of the Goddess, 1991), secondo cui la preistoria fu delle donne. Era quella l’età dell’oro. Un’epoca felice, di accordo fra esseri umani e natura; l’epoca smemorata, di cui le grotte ornate ci hanno lasciato un’impressione leggiadra e sorpresa. Quasi che la vita fosse allora una danza. Vennero poi, dopo l’oro, tutti gli altri metalli: il rame, il bronzo, il ferro. E furono gli uomini, non le donne, a farne punte e frecce, lame e coltelli.