«L’Italia è tutta bella». Lo si sente dire ed è probabilmente vero. Più vero sarebbe dire: «In Italia, il grado medio della bellezza è superiore rispetto a quasi ogni altro Paese». Perché, in Italia, ci sono pure i posti brutti. Mi ci sono fermato, in uno di questi posti brutti, quasi per caso, risalendo in auto la Penisola. Il mare era fuori portata, esclusa la luce marina, distratto il profumo di iodio, tolto il sentimento del mare. Niente profili aguzzi di montagne d’altra parte, né colline, col loro orizzonte pallido e acquoso. Niente laghi, che pure in Italia rischiarano il paesaggio fin dentro certe lande che, se invece che in Italia fossimo in Polonia (si fa per dire), sarebbero depressioni desolate. Era metà luglio e siccitava. C’era una pianura polverosa e una strada affogata nella callara di un sole perpendicolare. Piante poche, alberi nessuno. In quella specie di Libia o di Messico – se è vero che in Libia e in Messico ci sono posti così, come ce li fanno vedere nei film – sono sceso dall’auto per un caffè. Al banco, una barista gentile ha posato la tazzina piena per tre quarti – lo prendo sempre molto lungo l’espresso – sul piattino bianco. L’ha fatto con grazia e senza rumore, e nel farlo ci ha aggiunto perfino un piccolo sorriso, un sorriso di cordialità campestre, senza malizia. Ho pagato un euro il caffè, due e cinquanta una piccola bottiglia d’acqua, ho salutato, sono andato via.
Ha finito di bruciare quel luglio canicolare e poi è scorso l’agosto afoso, settembre è passato che pareva giugno e ottobre ci ha portati le allergie e i tepori di maggio. Abbiamo chiuso l’estate con l’emozione dei primi bagni – che erano, però, gli ultimi. A novembre, prima parte, e cioè prima che l’autunno venisse giù, sono stato a Venezia. Seduto a un tavolo nella piazza, da una parte San Marco, col campanile che gettava ombra quasi fosse una meridiana e ronzio di turisti sciamanti accanto a fitte code immobili e composte, dall’altra e sul fondo un filare di gondole beccheggianti e l’isola di San Giorgio Maggiore, ho chiesto un caffè – «un espresso molto lungo, per favore». L’ho bevuto dopo cinque minuti, appena meno che freddo, servito con velocità gentile e concisa, ma senza grazia e con qualche sottinteso di scomodità, perfino, che mi ha indotto a far presto. Otto euro e niente sorrisi. Versati alla consegna, per tema che me ne andassi impagato. Cinque minuti l’attesa più uno e mezzo la beva: sette meno meno per guardarsi intorno. Però, bella – accidenti! – questa piazza. Belle le gondole, lunghe distese dietro le bitte, a far da scenografia! Ci sono milleduecento anni di devozione, di contese, di sotterfugi, di incendi, di ammazzamenti e di lavoro qui, attorno alle reliquie di San Marco: dai giorni di quel doge che promise di far erigere una chiesa degna delle spoglie dell’Evangelista fino a ieri. Fino a oggi, anzi, a stamattina, quando hanno riacceso i ceri e riaperto il portale con la doppia gorgiera dei mesi e dei mestieri per lasciar passare i turisti sotto gli squeraroli, i vinai, i fornai, i macellai e i lattieri. I fedeli se ne vanno di lato, sul fianco; passano dai Leoncini e anche lì c’è coda, tra i più che vanno ad ammirare e i pochi a pregare. Ci sono le colonne, il Museo col nome di una famiglia che diede alla città e alla Chiesa patriarchi, ambasciatori, cardinali e addirittura un papa, lo scorcio del Palazzo Ducale, San Giorgio di marmo svettante sull’isola verde-golf, oltre questo braccio di laguna e il via vai di vaporetti, delle chiatte, delle gondole, dei Riva, di legno caramellato, tenuto a lucido a colpi di cera e gomito. C’è la bellezza. E non è vero che la bellezza è gratuita – cioè, a guardarla lo è, per ora ancora lo è, lo è per fortuna abbastanza – se il mio caffè, non migliore dell’altro e senza sorriso, l’ho pagato sette euro di più. Venezia, insomma, vale il settecento percento.
«È la bellezza che aggiunge valore al caffè» penso, camminando affianco del Ponte dei Sospiri per scendere poi verso Riva degli Schiavoni. È la bellezza che ci fa ricchi. Non è chimica la bellezza: qui si crea, qui si distrugge. Si crea, reagendo la bellezza, il plusvalore. È la bellezza la “mano invisibile” e ogni giorno, per ogni caffè, regala 7 euro al Caffè Florian, mentre io e altri come me e come te facciamo la fila per pagarli, abbacinati dagli ori, dalla luce, dalla pietra, frastornati dalla ricchezza delle millenarie generazioni di dogi e senatori e intraprendenti mercanti, con l’Oriente che sembra lì dietro, oltre il balzo di Marco Polo, e l’ambra e la seta e il benzoino e i nomi magici delle città tra le cui mura si rifugiavano le carovane e i porti degli Arabi e quelli dei Cinesi e Bisanzio, che non c’è più, e i suoi cavalli rapiti che Napoleone rapì (e il Canova fece restituire)… Qui c’è la storia, qui c’è la bellezza: è la bellezza che aumenta il valore del caffè, della pizza, del panino imbottito (e non si dice di cibi più raffinati). La bellezza è la “mano invisibile” e meglio ancora quando sorride – ma qui è così tanta che nemmeno ci prova né fa lo sforzo. Il sorriso qui è un optional, una confidenza inutile dove tutti fremono e stanno un giorno appena e strusciano le suole sui moli fino a consumarli. Vale quanto lo zucchero nel caffè. Si paga uguale, con o senza. Non c’è bisogno di grazie riscattatorie. Io le vorrei anche qui e mi manca quell’altro sorriso donato, frugale e messicano. Eppure come gli altri, come i giapponesi cortesi e compunti e come gli americani che zonzano con le bottiglie d’acqua in mano, afflitti da una sete penitenziale, anch’io pago quasi volentieri le gondole e l’isola, i mosaici di Bisanzio, i cavalli imperiali. [stefano.termanini@gmail.com | 2.1.2023]
[continua in una prossimapuntata…]
Se sei arrivato fin qui, probabilmente, ami la lettura e i libri. Te ne suggeriamo alcuni, freschi di stampa. Provali! Leggili! Regalali! Non te ne pentirai e sosterrai il nostro lavoro:
Non si tratta soltanto di salvare le librerie e i libri. Anche. Prima la vita era “fluida”, poi è diventata torrenziale. Ma i libri restano boe.
Fa male la notizia di una libreria che chiude. Fa più male se si tratta di una libreria “storica”, di quelle animate da librai che ai libri vogliono bene. Chiudi una libreria e uccidi un quartiere, un tessuto di relazioni, una rete di incontri, un luogo di occasioni, di pensiero e di civiltà.
Ci siamo accorti di quello che è accaduto con le edicole? “Vendiamo soltanto la mattina” mi diceva il giornalaio all’angolo della strada. “Tanto vale tenere chiuso il pomeriggio”. I suoi orari si sono via via accorciati – l’inverno era dura star barricati nel gabbiotto con la stufetta accesa e, quando pioveva, il chiosco dell’edicola sembrava una scialuppa da rinzaffare. Con quegli orari così corti, se la mattina mi dimenticavo di comprare il giornale, perché ero di fretta o perché avevo preso un’altra direzione, era finita. Per quel giorno l’avevo perso. Alle 13,30, l’edicola era già sbarrata. Qualche volta alle 13 i giornali erano finiti. “Tutti? Allora non è vero che non si legge?” chiedevo all’edicolante. “No, è che ce ne mandano meno”… Insomma, a suon di accorciare gli orari per via del fatto che i lettori ormai si erano accorciati, si sono sempre più accorciati anche i lettori. E poi, da quando, purtroppo, l’anziano giornalaio ha lasciato per sempre il suo chiosco, partito per una destinazione in cui le parole non si pronunciano più, l’edicola è stata chiusa. Fasciata sui quattro lati della saracinesca verde che ogni mattina la sfoderava, profumata di carta inchiostrata, l’edicola è da allora come una lattina di conserva che abbia superato la data di scadenza. Sta lì, abbandonata, in attesa di smaltimento. Prima era un angolo vivo di città, con le macchine che ci si fermavano davanti, in doppia fila e gli autisti degli autobus che, slalomando, imprecavano; con le persone che andavano e venivano, lettori abituali, abitanti del quartiere che si salutavano. I turisti chiedevano una cartina, un’indicazione. Scendeva dall’auto, piantata davanti a quattro frecce, un celebre architetto, un novantenne dinoccolato e ganzo che da quarant’anni, ogni mattina, comprava i suoi due giornali. Con l’edicolante si davano del tu. Passavano i padroni dei cani, a chiedere l’inserto del “Secolo XIX” dedicato alle gite fuori porta con i nostri amici animali (se mai è stato pubblicato). Così via. La vita, insomma. C’era la vita, in tutta la sua variegata, multiforme, scomposta e odorosa complessità. Ma, da quando l’edicola è chiusa, niente. Più niente. Ora non c’è più chi chiede, chi compra, chi passa, chi si ferma in doppia fila, chi impreca e chi fa imprecare. Fine delle parole, fine delle azioni. Silenzio. Quell’angolo di città è, ora, un angolo morto.
Le edicole hanno segnato la strada. Prima i giornali e poi i libri. Succederà così anche con le librerie. Se non facciamo qualcosa, ci ritroveremo con le città piene di gente che corre e che non parla (tranne che con il proprio cellulare!). Ci ritroveremo pieni di parole senza memoria, svolazzanti nell’etereo cloud. Parole su cui non si riflette, che si dicono, si ridicono, si dimenticano, vengono ascoltate di nuovo… una società dell’oralità 2.0. O forse 3.0 (o 4.0?), se si contano le parole che verranno dette nel metaverso. Un’oralità così fluida da far paura a Socrate, che pure ne amava la duttilità, la piega imprevista con cui si percorre la scala del ragionamento. Oralità senza ragionamento; il predominio del cloud: ci ritroveremo (forse, ma speriamo di no) senza memoria, svuotati, presentificati. Se non stiamo attenti, noi, i nostri libri ce li andremo a leggere nel metaverso. Non ci sarà neppure bisogno di incendiarli. Anzi, no, non fatelo: il metaverso è green, è contro l’emissione di gas ad effetto serra. Senza dire, poi, che nel metaverso dalle basse temperature ci si difende in un lampo – in un colpo di mouse.
Si può ancora scegliere? Si può sempre scegliere. Il legno storto ci si prova a raddrizzarlo fino all’ultimo, ma prima è flessibile, poi, di giorno in giorno, si fa sempre più coriaceo e più duro. Inventiamoci qualcosa di nuovo. Una fiammella, un segnale. Una cosa che, anche se proprio nuova non è, possa rinnovarci: facciamo nascere in ogni libreria una scuola di lettura. Nelle librerie indipendenti, quelle già pericolanti, che portano un nome e un cognome, e nelle grandi librerie di catena che ancora veleggiano sicure di non dover mai calare le scialuppe a mare. Una scuola di lettura, che sia organizzata negli orari più comodi, non esoterica, non carbonara, non saccente. Una scuola di lettura che prenda in mano i libri e che li faccia prendere in mano e sfogliare da tutti i suoi adepti e, con pazienza, perfino da quelli che non vogliono saperne. Una scuola di lettura senza matita rossa e blu, senza docenti, senza discenti. Una scuola di lettura che sia fatta con chi si sederà su quella sedia, a quell’ora, quel giorno – e che magari spieghi a tutti gli altri, sui social, quanto sia importante e utile e bello essere lì e non altrove. Una scuola di lettura che abbia rispetto per il tempo, che ci ridia tempo (“Leggere?”, ti dicono i non-lettori, “quanto mi piacerebbe leggere! ma non ho tempo, non ho mai tempo…”). Una scuola che ci rieduchi a prenderci un’ora intera, senza le interruzioni dei bip – come durante un concerto, come a teatro, come ormai non accade più né a scuola, né a tavola, né a una conferenza, né nei nostri momenti più sacri, se pure ancora qualcosa di sacro ci resta e forse anche e proprio perché ce ne resta troppo poco.| [27.12.2022 | stefano.termanini@stefanotermaninieditore.it]
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Alla Radura della Memoria, nel quarto anniversario della tragedia, si ricordano le 43 vittime del Morandi.
Marco Bucci: «Genova avrà questa data scolpita nella pietra e non se la dimenticherà mai più». Il ministro Giovannini: «siamo arrivati per la prima volta a revocare una concessione autostradale». Egle Possetti: «Abbiamo sperato che dopo questa vergogna immensa potesse emergere un sentimento di rivalsa che facesse tremare fin nel profondo la mediocrità imperante che ci ha permeato in lunghi anni e in tante altre tragedie».
GENOVA – Un grande vascello bianco. Sembra proprio un vascello, ha la forma di una chiglia di nave. Sopra le nostre teste, così come lo ha pensato il suo ideatore Renzo Piano. Un’immenso scafo d’acciaio, che solo in parte copre la platea di sedie, allestite nella Radura della Memoria. A metà agosto, lì sotto, fa molto caldo. Si legge che domani verrà la pioggia, come nel 2018, quando cadeva fitta da non vederci. Per ora, però, il sole scotta e alza l’afa. Si aprono gli ombrelli bianchi consegnati dalla Protezione civile e dall’Associazione Nazionale Carabinieri. Siamo qui per ricordare il ponte che non c’è più; e più ancora le persone che non ci sono più, crollate con il ponte. Siamo qui per ricordarci che non siamo qui per caso, né per fatalità. Anche se il tamburo delle nuove notizie e l’incalzante dimenticanza di ogni giorno insidiano memoria e coscienza. Monsignor Marco Tasca dice che dimenticare non è possibile. «Il tempo non cancellerà il dolore, né i danni per la città – dice l’arcivescovo e parla per primo – il tempo ci chiede di fare memoria secondo verità e giustizia». Sul telo, sul fondo dell’anfiteatro della Radura, da poco hanno finito di scorrere le immagini del crollo, i nomi delle vittime, la loro età il giorno in cui il vecchio ponte li ha travolti. Loro «stanno davanti a noi e a Dio», dice monsignor Tasca, e invita ad accelerare «i procedimenti giudiziari». Tutto è cambiato qui, in quattro anni. Alla ricostruzione si deve guardare con gratitudine. «Collaborazione e condivisione sono stati strumenti di ciò che si è fatto». Dal dolore è germogliata una speranza per il futuro, si è imparata l’importanza di «camminare insieme, collaborare, condividere» e, se pure non manca il bisogno di «rafforzare e migliorare i percorsi che si sono seguiti», si è visto che la solidarietà può essere «più forte della morte e dell’egoismo». La memoria potrà farsi azione: è l’auspicio. C’è un orizzonte di speranza per la città, sul fondo di questa storia che si allontana, anno dopo anno, e continua a far male. «Dio si è fatto accanto a ognuno di noi per essere la nostra fibra più profonda» conclude mons. Tasca. E l’imam Salam Hussein, che parla per secondo, ricorda che: «la vita umana è la cosa più cara a Dio». Fa un paragone: «La kaba è la prima moschea ed è molto cara a Dio – ma la vita di un uomo è più cara a Dio». Esprime la sua solidarietà ai parenti delle vittime: la nostra vita di quaggiù «è un divertimento illusorio», ma non lo è l’«altra vita», quella «infinita vicino a Dio», quando i nostri «pochi attimi di felicità» verranno sostituiti dalla «felicità vera», che «è quella con Dio». Il crollo del Morandi ha causato vittime di nazionalità e religioni diverse: «è la testimonianza di una città multiculturale che ha saputo accogliere e ha saputo essere solidale». Alfredo Maiolese, rappresentante della comunità islamica a Genova, ricorda coloro che proprio qui, dove ora si sta parlando, quattro anni fa hanno perso la vita. Chiede a Dio di sollecitare la pazienza, invoca la sua benedizione.
Il cielo si vela e quasi fa più caldo. Dopo le autorità religiose, di parlare è ora il turno delle autorità civili.
Marco Bucci, sindaco di Genova e commissario per la ricostruzione del Viadotto Polcevera, per il nuovo ponte è stato in prima fila più di chiunque altro. Ha sovrainteso alla demolizione del vecchio e alla ricostruzione del nuovo. Alla chiamata del lavoro per il ponte non è mancato un giorno solo. Il ponte, che porta la firma di Renzo Piano, di firma porta anche la sua. «Voglio rinnovare la più sentita vicinanza del governo e mia personale ai parenti delle vittime, ai feriti, a tutti i genovesi». Non sono di Marco Bucci le prime parole che Marco Bucci pronuncia; sono, bensì, di Mario Draghi. Il sindaco Bucci le legge dal messaggio che il presidente del Consiglio gli ha fatto pervenire: dice che il dolore suscitato dalla tragedia e dal suo ricordo si associa alla convinzione per cui lo Stato deve fare tutto il possibile perché tragedie come quella del Morandi non accadano mai più. «Ho visto una città forte e unita – scrive nel suo messaggio Mario Draghi e fa riferimento alla sua visita a Genova –, che non dimentica il passato e guarda con coraggio al futuro. La rapida realizzazione del nuovo ponte San Giorgio è un esempio straordinario di collaborazione e convergenza, un modello per tutta l’Italia». «Genova non dimentica, Genova non vuole dimenticare», chiosa il sindaco. «Il 14 agosto: la città di Genova avrà questa data scolpita nella pietra e non se la dimenticherà mai più». Dal giorno in cui il Morandi è crollato, la città ha molto sofferto. Ha sofferto la Valpolcevera soprattutto. «È nostro dovere lavorare per lo sviluppo della città e di quest’area», afferma. «Lavorando tutti assieme noi possiamo fare le cose importanti, possiamo riuscirci, possiamo avere successo, possiamo costruire una società civile che non è seconda a nessuno e Genova vuole essere campione di questa società civile nel futuro». E, parlando ancora a nome della città, conclude: «Genova vuole giustizia. Vogliamo che la giustizia abbia i suoi effetti».
«Oggi è un giorno di memoria», dice il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti, che, come il sindaco Bucci, non è mancato a uno solo degli appuntamenti del dolore e del lavoro, dall’agosto 2018 a oggi. «Oggi è il giorno del ricordo delle vittime di quella tragedia. Oggi è il giorno anche della rabbia, lo capisco bene, perché non ci dobbiamo mai dimenticare che quelle vittime non sarebbero dovute essere vittime, non sarebbe mai dovuto crollare un ponte nella civile e moderna Italia, nella civile e moderna Genova». Sono trascorsi quattro anni: «il tempo ci dà modo di comprendere che cosa è seguito davvero: cosa abbiamo fatto e cosa resta da fare. La prima cosa che resta da fare è evidente a tutti. È avere la verità su cosa è successo, la verità che si pronuncia nei tribunali della Repubblica, la verità che non è rabbia, in questo caso, non è vendetta, ma è quella verità giudiziaria che ristabilisce un rapporto di fiducia fra quei cittadini che hanno subito il torto e le istituzioni della Repubblica italiana». I magistrati hanno operato, «con grande sobrietà». Il presidente si augura che giungano presto alle conclusioni del loro lavoro. Ci sarà il memoriale, «ma tutto quello che faremo e che l’amministrazione farà in questa valle, in qualche modo, sarà un memoriale a quelle vittime e a quei giorni». Cita il presidente Mattarella e il suo messaggio della mattina, nomina la legge speciale che i parenti delle vittime chiedono da tempo. «Spero che dia un po’ di conforto la consapevolezza che tante, tante persone che dobbiamo ringraziare, da quel giorno si sono spese perché quel ponte non fosse crollato invano; si sono spese per ricostruirlo ed è in tutta la sua bellezza sopra le nostre teste, si sono spese perché la città da quell’evento così drammatico riacquistasse energia per ripartire». Il lavoro dei tanti che si sono spesi «perché questa città non finisse in ginocchio, ma si sapesse rialzare» è la testimonianza della grandezza del nostro Paese. Li ringrazia. Anche da una tragedia così immane, attraverso l’impegno di tutti, può esserci un riscatto.
Grazie, dice Egle Possetti, presidente Comitato Ricordo Vittime Ponte Morandi. È la prima parola. Grazie a tutti quelli che hanno lavorato, ieri e oggi: per le vittime, per onorarne il ricordo. A «tutti quei giornalisti che amorevolmente ci seguono nel nostro cammino». «Sono trascorsi ormai quattro anni – comincia – di dolore, di speranza, di illusione». Cade su quest’ultima parola l’accento. Il ponte è sopra di noi: qui si è andati veloci; sorprendentemente veloci. Al posto dei rottami dolorosi del Morandi, dall’agosto 2020, la chiglia del nuovo ponte riempie il cielo di questo spicchio della Val Polcevera, lustra come una portaerei. Del vecchio, di quella precedente epoca corrosa, non resta che il gasometro. Un pezzo da collezione, con la ruggine che ne marca tutte le vertebre. Contro la collina di Coronata, in attesa che si decida se avrà un futuro, il gasometro chiude tuttora, in modo non del tutto rispettoso ma in fondo prudente, alla genovese, la prospettiva delle magnifiche e progressive sorti. «Ci sono sentimenti – continua Egle Possetti – che purtroppo non abbiamo mai provato in questi anni: l’orgoglio e la percezione del cambiamento». Fiducia sì, la fiducia i parenti delle vittime l’hanno riposta – e ancora la ripongono – «nel faticoso lavoro di chi sta cercando la verità». La tragedia, però, avrebbe dovuto cambiare i sentimenti del Paese, forse anche le sue aspirazioni. Tutti noi. «Abbiamo sperato che dopo questa vergogna immensa potesse emergere un sentimento di rivalsa che facesse tremare fin nel profondo la mediocrità imperante che ci ha permeato in lunghi anni e in tante altre tragedie». È il passaggio più forte, la dissonanza che strappa con i bei discorsi, che infrange la rete delle convenienze. «Guardandoci intorno – dice Egle Possetti – non abbiamo percepito nessun tremore, nessuno sconvolgimento, solo un po’ di indignazione, che via via viene avvolta da una coltre di nebbia profonda che lascia intravvedere la tragedia, ma solo a tratti, solo nelle parole e raramente nei fatti. Con la definitiva cessione di Aspi alla cordata economica con il partner pubblico CdP si è compiuto un atto che non potremo mai accettare. Questa scelta ha fornito una brillante via d’uscita, con remunerazione economica stellare, ai detentori delle azioni al momento della tragedia. La responsabilità morale è chiara, il processo andrà a certificare quali siano anche le responsabilità penali personali, ma noi pensiamo che la via dell’annullamento contrattuale o della gestione controllata fino a fine processo sarebbero state le uniche vie degne di essere percorse». Il ministro Enrico Giovannini, soltanto qualche minuto prima, ha detto altrimenti. Ha detto che, dopo questa «tragedia inaccettabile per un Paese moderno», che «ha indotto il Ministero delle Infrastrutture a un cambiamento importante», alla «scelta concreta» della «sicurezza delle infrastrutture» e della loro manutenzione, «siamo arrivati per la prima volta a revocare una concessione autostradale». Ha detto «revocare». Punti di vista. Interpretazioni. La concretezza della politica vicina, i distinguo, gli argomenti, le angolature e gli scorci della politica nazionale. Nomi diversi dati alle stesse cose; nomi a tal punto diversi che vien da dubitare che le cose siano le stesse. Il ministro dice che governo e ministero si sono costituiti parte civile e questo «rende evidente la volontà dell’istituzione di fare piena luce sui fatti e perseguire i responsabili, nessuno escluso». Ma, poi, parla di «revoca». I giornali ne hanno scritto per mesi, ogni volta che l’accordo sembrava vicino, prossimo addirittura, siglato e sottoscritto, e ogni volta che cambiavano le carte in tavola. Ecco, per esempio, tra i molti, un articolo del «Sole 24 Ore» del 18 marzo scorso, seguito al parere favorevole della Corte dei Conti sulla «legittimità» dell’«accordo transattivo» tra il Ministero e Aspi. Ora – si scriveva sul principale quotidiano economico italiano – «il processo di vendita può dirsi sostanzialmente definito». «Il trasferimento di Aspi da parte di Atlantia, operazione del valore di oltre 8 miliardi, segna […] la conclusione del contenzioso tra lo Stato e la società della famiglia Benetton […] apertosi quasi quattro anni fa dopo il crollo del ponte Morandi». Si scriveva che l’accordo era stato cercato «proprio per evitare la revoca della concessione, in scadenza al 2038, minacciata più volte dall’esecutivo di quel periodo». Ovvero dal primo governo Conte, in carica al momento della tragedia e, da subito, intransigente – tanto quanto, invece, è stato possibilista e accordista il secondo governo Conte. E assenziente il governo Draghi. È mentre l’esecutivo guidato da Mario Draghi è in carica, al principio del maggio scorso, che Aspi, con la concessione autostradale che “ha in pancia” e che è il suo vero valore, torna allo Stato. CDP Equity ne ricompra il 51%, i fondi internazionali Blackstone Infrastructure Partner e i fondi che fanno capo a Macquarie Asset Management ne acquistano il 24,5% ciascuno: l’operazione si chiude a 8,19 miliardi. Tanti ne versano i compratori – salvo la cosiddetta ticking fee – al gruppo Atlantia. Se questa è una «revoca», bisognerà forse ridefinire il significato delle parole. I cittadini, non soltanto i parenti delle vittime, avevano inteso altrimenti: erano appesi al significato vecchio. Vendere fa pensare al denaro, sterco del diavolo. È meglio che stia dietro le quinte, il denaro. E se è tanto, tanto tanto o tantissimo, è più facile che si adagi sul fondo e sia invisibile; uguale a quando è poco, o pochissimo, e per contarlo ci vorrebbero i decimali. Vendere va bene; revocare va meglio. Qualcosa cambia, succede. Come non si sa, tutto può essere.
Possetti accusa: «Nessun restyling della società e dei suoi precedenti azionisti potrà cancellare quello che è stato. Non basta cambiare nome, spendere miliardi in pubblicità e pubblicazioni per cancellare il fango. In questa situazione i media dovrebbero essere stati inclementi con loro». Non lo sono stati. Si ripercorrono i fatti, ecco come è andata.: «Noi italiani abbiamo consegnato nelle mani di questi azionisti oltre 8 miliardi di euro. La nuova cordata si accollerà il debito societario, pagherà gli eventuali risarcimenti e dovrà portare avanti tutte le manutenzioni strutturali necessarie su buona parte della rete autostradale restituita». La quale è nelle condizioni che sappiamo. A ricordarcelo ci sono i cantieri che strozzano e intralciano il traffico ogni pochi chilometri e le lunghe code nelle giornate di punta.
La tragedia del Morandi ha portato denaro in città. Sono i milioni del Decreto Genova, sono i risarcimenti: «pochi» secondo Egle Possetti. E spera che «possano portare un reale miglioramento al territorio per opere necessarie, fattibili e che siano degne della sofferenza che li ha generati». Chiude sul Memoriale: «abbiamo avuto assicurazioni sulla nascita del memoriale in tempi accettabili e almeno in questo vogliamo avere fiducia». Lo descrive, così come i parenti delle vittime lo vorrebbero: «dovrà essere vitale, dovrà aggiornarsi con l’iter della vicenda, dovrà essere un monito, dovrà emozionare, commuovere, far riflettere, educare alla ricerca della verità sempre, combattendo ogni menzogna», dovrà essere «monumento di interesse nazionale, riconoscendo l’alto valore di questa specifica memoria». Più fatti e meno attese. Il ministro Giovannini ha citato Italo Calvino: «l’esperienza è la memoria più la ferita che ti ha lasciato, più il cambiamento che ha portato in te e che ti ha fatto diverso». Egle Possetti cita la frase di un anonimo, «scritta nel ricordo della strage di Bologna, pochi giorni fa». È una frase che pungola, che sferza, che incide. I giornali, nei giorni seguenti, ne faranno titoli e sottotitoli. Lei la pronuncia, il pubblico l’applaude e lei un poco si commuove: «a forza di osservare minuti di silenzio, abbiamo messo insieme anni di vergogna». Conclude: «Noi vorremmo che si potesse terminare questa lunga sequela di decenni di vergogna, si potessero aprire le finestre, fare luce, arieggiare questo Paese; che si potesse finalmente respirare a pieni polmoni, che si potesse comprendere quali siano i veri valori, senza che le parole siano espresse per convenienza, per immagine, per dovere, per commiato; che tutta la politica diventi veramente attività per la polis, per la protezione dei cittadini, di tutti gli esseri viventi della nostra Terra». Scatta in piedi qualcuno, al centro della platea, per applaudirla. Tutti l’applaudono con fragore. Si alzano altri, ai lati, nelle file interne e poi tutti, anche quelli meno d’accordo, se è possibile che ve ne siano, incitati dall’esempio degli altri. Ci sono parole che assomigliano a fatti; pronunciarle è già agire.
La cerimonia è al suo culmine. Si applaude ai bambini delle scuole della Valle Stura, vestiti di bianco, e alla violoncellista Cora Greco, che suona Vivaldi. Siamo in anticipo. Si chiede un secondo brano e poi un terzo, che sia breve. Un altro movimento della stessa quinta Sonata di Vivaldi. Alle 11,36, in piedi, si osserva un minuto di silenzio, battono le campane delle chiese, stridono appena dopo le sirene. Come ogni altra volta prima. Che il silenzio serva alla memoria: quattro anni fa, in questo proprio momento, lo strallo posto a sudest della pila 9 si torceva e si spezzava, l’antenna crollava, automobili e camion venivano sbalzati e ingoiati fra le macerie. In questo momento, sul ponte Morandi, sotto una cortina di fulmini e di pioggia, quattro anni fa si moriva. Si moriva sotto il ponte Morandi, proprio dove noi siamo ora, in piedi, sotto il sole d’agosto e la macaia di oggi; sotto il ponte Genova San Giorgio, passerella d’acciaio, tettoia sicura, immenso dolmen. Nevio Zanardi, compositore, pittore, professore di violoncello al Conservatorio di Genova, ambasciatore di Genova nel mondo, ha composto una preghiera in musica per le 43 vittime del Morandi. Lo ha fatto di getto, lo stesso giorno della tragedia. La notizia del crollo del Morandi era stata appena battuta e non lo era ancora il mezzogiorno. Cora Greco ne porta i saluti: non può essere presente a causa di una indisposizione, ma ha mandato un messaggio. Lei lo legge: «ho composto di getto la preghiera per le vittime del ponte Morandi martedì 14 agosto 2018 alle ore 11 e 57, sotto la spinta della tremenda notizia appena appresa alla televisione». La preghiera, che ha tinte rachmaninoviane, è in due tonalità. «La prima volta esprime un profondo sentimento di incredulità e di grande dolore, la seconda volta desidero comunicare con enorme tristezza il mio intimo sentimento di fraterna vicinanza ai famigliari, così duramente colpiti, la terza volta, alla ripresa della prima tonalità, rinnovo un sentimento, un disperato e rabbioso sentimento, un grido di profonda delusione per ciò che mai e poi mai sarebbe dovuto accadere, e lo dimostro interrompendo bruscamente la melodia alla quarantatreesima nota, come è stata stroncata la vita a 43 vittime innocenti. Al termine dell’esecuzione chiedo segua un commosso silenzio di 10 secondi». Suona, Cora Greco, la preghiera di Nevio Zanardi mentre ancora gravemente battono le campane del Santuario dell’Incoronata. Appena prima è stata letta la poesia-preghiera di Stefania Sardano, in memoria delle vittime del ponte Morandi, come un susseguirsi espressionista di quadri, dalla solitidine mutilata del vecchio Morandi fino al baluginare di una «desiderosa speranza». Egle Possetti premia Nevio Zanardi; Cora Greco riceve il premio per lui. «È l’autore della prima opera dedicata alle vittime del ponte», dice. Si applaude, ci si saluta, si va via. Non tra un anno ci dà appuntamento, ma per domani. Anzi, a oggi, si dice, a oggi stesso. Non c’è sosta per quel che resta da fare, così come non ce n’è per l’eco della tragedia – per il suo assurdo dolore. Non ce n’è per Genova. [15.8.2022 | stefano termanini]