Era tempo fa. Tanto tempo fa. Scriveva Johan Jakob Bachofen (1815-1887), archeologo e antropologo svizzero, nell’introduzione della sua opera più celebre e sconvolgente, “Il Matriarcato”: «Dalle epoche maggiormente conosciute dell’antichità veniamo rimandati a periodi più antichi; da un mondo di pensiero che ci è noto, a un altro interamente diverso e più remoto. […] Un mondo sconosciuto si apre al nostro sguardo».
Lo studio di Bachofen è, in vero, l’ambiziosissima ricerca di un autore straordinariamente sapiente ed erudito, capace di spaziare dalle testimonianze sul «diritto materno» dell’antica Licia all’analisi dei miti e alla corrispondenza con le posizioni dei corpi celesti; dall’idea di “fratellanza” presso gli antichi abitanti di Creta all’influsso sul benessere dello Stato della ginecocrazia (e al suo significato immateriale, svolto in coerenza con il concetto di “madre natura”, che poteva riferirsi, con significati diversi, ora alla terra ora alla luna). In Egitto – Bachofen deduceva e teorizzava – avevano dominato le donne e la figura mitologica di Demetra, la dea delle messi, figlia di Crono e Rea, era stata «base e modello» di un’intera civiltà. Poi qualcosa era accaduto. Alla società femminile, pacifica, armoniosa e gentile, era subentrata la società maschile; ne erano venuti il mito della forza fisica, della violenza e della guerra. Omero, con i suoi eroi che si combattono sotto le mura della città di Troia, con le sue mitologie di guerrieri, di elmi, lance e spade, è – rispetto alla storia che Bachofen si proponeva di far riaffiorare – un moderno.
Tra Omero, Gabriele d’Annunzio, il generale Armando Diaz, Winston Churchill, Thomas Woodrow Wilson e Franklin Delano Roosevelt (tanto per dire) non passa alcuna soluzione di continuità. C’è un abisso, invece, tra Omero e la Mater Matuta, la dea che accoglie il Sole quando nasce, la madre dell’aurora e la protettrice del parto, o le “madri” di Capua, che discendevano dal culto di Leucotea, la dea “che scorre sulla schiuma del mare”, nutrice di Dioniso bambino. Quel che ce n’è giunto, l’immagine trasmessaci dalla statuaria italica ed etrusca – splendida, talvolta, e più misteriosa, come nella figura conservata presso il Museo Archeologico di Firenze – è perlopiù la pallida e tarda sinopia di culti precedenti che onoravano, in Sardegna, la Grande Madre mediterranea, Ashtoreth in Fenicia, Astarte a Malta, Ishtar in Mesopotamia, Atar in Arabia, Hator nell’Antico Egitto.
Franco Cascini nel suo «Viaggio nell’Età dell’Oro», Serel | Stefano Termanini Editore (lo trovi qui: https://bit.ly/3yeLFaF ) riprende questa idea, prima di Bachofen e poi di Marija Gimbutas (ispirandosi, in particolare, a un libro celebre e discusso: The civilization of the Goddess, 1991), secondo cui la preistoria fu delle donne. Era quella l’età dell’oro. Un’epoca felice, di accordo fra esseri umani e natura; l’epoca smemorata, di cui le grotte ornate ci hanno lasciato un’impressione leggiadra e sorpresa. Quasi che la vita fosse allora una danza. Vennero poi, dopo l’oro, tutti gli altri metalli: il rame, il bronzo, il ferro. E furono gli uomini, non le donne, a farne punte e frecce, lame e coltelli.
Non parteggio per nessuno. Non voglio preconcetti, li evito. Il giusto non l’ho in tasca, anche se mi sforzo di non sedergli lontano. Non sono putiniano, ma ammiro la cultura e certo ho amato e amo la letteratura russa. Sono stato in America e vi ho conosciuto gente semplice e buona, grandi lavoratori, uomini e donne fedeli e generosi. Mi hanno detto: “vieni anche tu. C’è spazio”. Ma io sono rimasto qui. L’Europa, da duemila anni, forse di più, è casa mia.
La guerra è la guerra, non l’igiene del mondo, ma la sospensione della legge della felicità e lo sprezzo della vita. Non vogliamo ricaderci come già cento, mille, diecimila volte. Non vogliamo la propaganda che la trasforma, da indicibile e inaccettabile, a scelta di campo e contigua fatalità.
Pochi giorni fa, al Tg1 delle 20, quello davanti cui siedono la metà forse delle famiglie italiane, è stata mostrata la morte in diretta. La morte prodotta col telecomando: come in un videogioco, un drone, controllato via computer, bombarda una trincea russa e (forse) uccide i soldati che la occupano. L’hanno fatto vedere. In tv. Nel primo canale che trasmette Domenica In e Quark, dove si parla dell’Italia Verde e Azzurra, dove si mostra urbi et orbi il Papa benedicente, ogni Natale e Pasqua. Ormai è normale – forti della consapevolezza che questa è una guerra giusta e che “noi siamo i buoni” – far vedere l’ucraino che uccide il russo per lo spettacolo delle buone famiglie italiane. Come un gladiatore contro la belva feroce, in tempi non animalisti.
Non sono insorte le anime belle. Ha taciuto l’Ordine dei Giornalisti. Io voglio dire, invece, se il soldato russo è un uomo, pensiamoci: c’è giustizia in chi fa vedere l’uccisione elettronica, videoludica, pret-à-porter, di un uomo? Se quello è un uomo, mandato dal suo ingiusto potere al fronte, e vale quanto te e quanto me, e tu lo fai uccidere (o lo vedi morire), per la sazietà spettatoria delle famiglie italiane, che dignità ti resta da difendere, per che cosa scendi in campo? Se è un uomo, quello che hai visto nella rappresentazione sfocata dello schermo e la sua e la tua vita è ormai un videogioco; se è un uomo, questo, che hai ucciso nell’abbruttimento della propaganda, come potremo pensare, oggi, domani, di insegnare ai nostri figli il valore della vita che dice il rispetto, la felicità, la cultura, la civiltà?
—
Lo spettacolo
Al Tg1 la bella inviata speciale, scarmigliati i biondi capelli al gelido vento dell’Est, parla con concitazione. Nel microfono, impugnato come il bastone del conte-duca d’Olivares, scandisce «più armi, più armi. Ci hanno detto che hanno bisogno di armi. Di più armi. Tutti ci ripetono la stessa cosa». Lampi alle sue spalle, missili, bombe, azioni di contraerea. L’Occidente deve essere compatto, lei dice, e chi sia il nemico è chiaro: «Più armi, più armi, per l’Occidente, per la libertà, per la democrazia, per la giustizia».
L’obiettivo gira, inquadra un carro armato. «È russo», spiega con soddisfazione il soldato ucraino. «L’abbiamo preso ai russi e ora lo usiamo contro di loro». Sorride, sornione, si compiace del successo. Hanno tolto alla tartaruga il suo guscio, al granchio le chele, all’uovo il tuorlo. «E i soldati russi che c’erano dentro?» «Non sono morti», si affretta l’ucraino in mimetica. Batte la mano sul cingolo, come sulla groppa di un lucido puledro. E pare volerci dire, suggerito dall’inviata speciale: la guerra non è poi così cattiva, se è fatta dai buoni. Non lo è così come la facciamo noi. Ci sono pur sempre pietà e regole nella nostra guerra. Noi combattiamo per la libertà, la democrazia e la giustizia; noi non scanniamo, noi non smembriamo. Noi conquistiamo e graziamo. Non è un ammazzatoio la guerra, se è fatta da noi. Da questa parte del reticolato, i despoti non ci sono più – e da molto molto tempo. Siamo tutti uguali quassù, quaggiù, qua-a-ovest. E state tranquilli che i soldati russi sono ora, come una tartaruga sgusciata, tra i due guanciali di un ospedale o sulle brande di un campo di redenzionamento e al caldo cantano di gratitudine e sorbiscono la loro buona minestra occidentale.
Una sorpresa ci attende. Non è ancora finita. La notte piena di lampi ha fatto spazio a un giorno crepuscolare e si va, dentro le jeep: «Ora vi facciamo vedere il quartier generale. Da qui si controllano tutte le operazioni». Scosta una tenda, entra in una sala giochi per soldati in mimetica, ed è buio intermittente per via degli schermi. Schiacciano pulsanti, i soldati in uniforme da campo, la testa cuspidata in un berretto di lana ogivale. La sala giochi della guerra: lei, la bella inviata speciale, ha messo occhiali da diva, alza la mano al volto, le unghie rosee e curate. E guarda. E ci fa guardare dentro gli schermi: è qui la guerra, giocata a colpi di joystick. «Sono i droni», spiega il soldato (si sente la voce ucraina sotto, tradotta per noi da un baritonale doppiatore pronipote di Cinecittà). «Qui la guerra la facciamo con i droni. Vedete laggiù? È una trincea russa. Il nemico lo vediamo e gli spariamo». Fuoco! Spara e colpisce, la macchia grigia annidata fra gli alberi diventa nera. È il missile, il suo impatto al suolo. Una striscia di fumo tra gli alberi, sulla neve. «Lo hanno preso?», domanda lei, ingenua e sorpresa. Ma sì, “preso”, lo hanno preso. Come il piattello al tiro al piattello, come la volpe il giorno della caccia alla volpe, come il tirasegno il pomeriggio del sabato, ai baracconi: se lo prendi, vinci. Picchia il pugno sul tavolo, piccoli, fitti pugni sul tavolo, il soldato ucraino tirocinato nella tramontante Abendland. Una mano colpisce l’altra. Dal pugno al palmo: è la sua soddisfazione che esplode, si esprime e si contiene. «Li abbiamo colpiti nelle trincee, c’è anche un blindato», dice. Noi siamo qui che guardiamo, attavolati, raccolti in famiglia, quieti della nostra buona coscienza. Noi lo sappiamo che vorremmo che il male scomparisse dalla faccia della Terra. Noi siamo i buoni, non è così? E allora, ve lo dico: siamo disposti a uccidere, noi, a fare a pezzi, purché il male sia sconfitto. A rincendiare Campo de’ Fiori. Irroghiamo e non deroghiamo: al rogo streghe, stregoni, despoti e irenisti! Sia dannato chi dubita della nostra nonviolenza! Sei hai paura, se ti fermi, se dirai “considerate se questo è un uomo”, tu sarai nemico tanto quanto il nemico che ascolta. Noi, che siamo i buoni, pur di sconfiggere il male, ci sacrificheremo sopraggiacendo a ogni malefatta. Dente per dente, occhio per occhio, missile per missile, tutto per tutto. Basta che sia finita, che sia la fine. Del male. Abbia la forma di quell’ombra sulla neve o di un carrarmato: noi ce la faremo. Noi siamo i buoni: non sei convinto che noi lo siamo?
Stacco. Vediamo la stanza, il volto, di nuovo la stanza. Il fondo che non sappiamo se è muro o tenda, piena degli occidentali strumenti del videogame della guerra. «Non sappiamo se sono vivi o morti», dice l’ucraino e il dubbio basti alla nostra coscienza, se ancora ci prudesse. Li vediamo nello schermo che inquadra lo schermo e, dopotutto, per annientare il male, occorre annientare chi lo fa – così va la vita! «Quando gli spariamo i russi corrono molto veloci. Anche noi corriamo veloci quando ci sparano. Tutti vogliamo vivere». [stefano termanini | 20.2.2023]
Abbiamo avuto modo di scrivere e pubblicare di Emanuele Brignole (1617-78) in due libri: Annamaria de Marini Emanuele Brignole e l’Albergo dei Poveri di Genovae Paolo Tachella, L’Albergo dei Poveri di Genova. Vita quotidiana, continuità e cambiamento di un”azienda benefica” tra Sette e Novecento. Ma a Genova la tradizione della munificenza privata, oltreché antica, è ampia. Oltre alle donazioni “grandi”, inoltre, sarebbe giusto parlare delle numerose donazioni “piccole” o addirittura “minime”, dei legati, degli aiuti testamentariamente previsti per istituzioni caritative di ogni genere e grado, che generazioni di genovesi disposero. Nella seconda metà dell’Ottocento lo sviluppo di Genova fu segnato dalla personalità munifica di Raffaele De Ferrari, duca di Galliera, e di Maria Brignole Sale, sua consorte. Fu grazie alle donazioni De Ferrari Galliera Brignole Sale, infatti, che a Genova, nella seconda metà dell’Ottocento si allargò il porto, si costruirono ospedali, si fondarono le principali collezioni museali della città. A questa storia, indagata e narrata da insigni studiosi (fra tutti: Laura Tagliaferro, Maria Stella Rollandi, Piero Boccardo, A. Giuggioli, Giovanni Assereto, Giorgio Doria, Paola Massa Piergiovanni, Liliana Saginati), proviamo a dare, qui di seguito, il nostro contributo.
Lo sviluppo industriale a Genova nella seconda metà dell’Ottocento
La nuova classe di imprenditori genovesi di metà Ottocento proveniva solo in parte dai vecchi ceti dirigenti; era composta perlopiù di borghesi che si servivano di apporti tecnici stranieri. Le classi con antiche tradizioni dirigenziali restavano infatti prevalentemente legate alle consuete fonti di guadagno, come l’armamento, che, tra l’altro, fu rinnovato solo lentamente e con difficoltà (infatti non furono le commesse delle società armatoriali private a sostenere l’industria siderurgica e cantieristica genovese). Prova ne sia il fatto che gli armatori genovesi continuarono, molto più a lungo di altri, a servirsi di navi a vela. Nei decenni precedenti alcuni rampanti membri della mobile e intraprendente borghesia genovese avevano avuto modo, attraverso alcune grandi speculazioni (si consideri ad esempio che l’emigrazione oltreoceano era stata per molti armatori un vero e proprio affare), di accumulare enormi capitali che ora diventava necessario investire. Questo fenomeno, non meno della crescita demografica e dell’inurbamento, sollecitò lo sviluppo edilizio.Nel Ponente genovese, dove la maggiore disponibilità di spazio favoriva l’insediamento degli stabilimenti industriali, si sviluppava nella seconda metà dell’Ottocento un’attività produttiva di rilievo nazionale (grazie alle commesse statali si producevano qui armi e locomotive in maggior quantità che in ogni altra parte d’Italia). Eccezionale anche lo sviluppo della cantieristica.
Nel 1851 il parlamento sardo aveva adottato nuove tariffe doganali e tale delibera aveva naturalmente influito sul traffico portuale. L’ascesa dell’industria del ferro parve prodigiosa: si cominciò con la costruzione e l’attivazione della fonderia Ballaydier, a Sampierdarena, nel 1832; tra Sampierdarena e Cornigliano sorsero nei decenni seguenti altri stabilimenti, come la Taylor e Prandi, nel 1846, e l’Ansaldo (1852), quest’ultima quasi subito impegnata da commesse statali per la fabbricazione di materiale ferroviario e navale. Altre industrie erano la Robertson, la Westermann di Sestri, la Orlando e l’Officina delle macchine della Regia Darsena, poi trasferita a La Spezia.
(La Stazione Principe di Genova negli Anni 40 del Novecento: cartolina)
Nel 1853 la ferrovia raggiungeva Genova: la linea faceva capo a piazza del Principe e terminava presso Banchi e il Ponte Reale, nel cuore della città antica e commerciale. Si trovarono a partecipare all’impresa delle costruzioni ferroviarie Genova-Voltri e Genova-La Spezia gli stessi capitani d’industria che alcuni anni prima avevano investito i propri capitali nella siderurgia.
Il periodo cavouriano aveva comportato una notevole espansione dei traffici marittimi. In conseguenza di questi, poiché le strutture portuali si rivelarono subito inadatte a sostenere i nuovi ritmi di lavoro, si richiesero nyotevoli adeguamenti: il Molo Nuovo e la Darsena furono prolungati, fu realizzata una linea ferroviaria al servizio delle calate (1854). Il primo studio completo per il riordino del porto, dell’ingegnere Adolfo Parodi, ispettore delle opere marittime del Genio Civile, risale al 1864. D’altra parte Genova si trovò inserita in un’importante rete di traffici e trasporti internazionali a partire dagli anni ’70: ciò si doveva allo scavo del canale di Suez e del traforo del Frejus, ma anche alla crescita della rete ferroviaria.
2. La necessità di ampliare il porto di Genova per renderlo capace di competere
A quel punto la questione dell’ampliamento del porto, dinanzi all’aumentare della stazza del naviglio e al più ampio volume dei traffici, divenne indifferibile. Il rimedio giunse inaspettato grazie alla donazione del ricchissimo marchese Raffaele de Ferrari, duca di Galliera (1803-1876). Quest’ultimo, unico figlio maschio del già dovizioso Andrea Gerolamo (m. 1828), era discendente di una famiglia che, cresciuta nell’importanza economica, aveva acquistato al principio del XVIII secolo un ruolo sociale di primo piano, sancito dall’ottenimento del titolo nobiliare, e aveva gestito un’intelligente politica di legami matrimoniali (si imparentarono con gli Adorno, del ceto dei Magnifici). Fino alla donazione del duca Raffaele, i De Ferrari erano invisi ai genovesi per una fama di gretta avarizia.
Raffaele De Ferrari, ben introdotto nel mondo finanziario ottocentesco, anche grazie alle relazioni della famiglia della moglie, Maria Brignole Sale, figlia dell’ambasciatore Antonio, che si è già avuto modo di ricordare, e ultima erede di una schiatta tra le più illustri e facoltose della Genova dei secoli XVII-XVIII, partecipò alle maggiori speculazioni ottocentesche finanziando lo sviluppo della rete ferroviaria in Francia e in altri paesi europei, arricchendosi grazie all’edilizia e intervenendo con i propri capitali nei maggiori appalti del secolo.
Amico personale del re Luigi Filippo d’Orléans, che gli offrì il rango di Pari di Francia, risiedette lungamente a Parigi nello straordinario palazzo di Rue de Varenne, vendutogli nel 1852 dal duca di Montpensier, attualmente noto con il nome di Hotel Matignon e dal 1935 sede della Presidenza del Consiglio dei Ministri francese.
Raffaele De Ferrari, che durante l’epidemia di colera del 1835, offrì in beneficenza la somma, misera se confrontata alla vastità del suo patrimonio, di 3.000 franchi, acquistò nel 1837 il ducato di Galliera, ottenendo dal papa che il titolo nobiliare legato a quell’amplissima proprietà gli fosse trasferito.
Nel 1870 si stimava che tra beni mobili ed immobili egli possedesse una fortuna di 200/300 milioni di franchi oro. A quel punto della sua esistenza la morte prematura del figlio primogenito, Andrea, stroncato a sedici anni da una malattia (alcune fonti sostengono che si sia trattato di colera; Liana Saginati, studiosa dell’epistolario dei Duchi di Galliera, sostiene che si sia trattato di scarlattina), e la stranezza dell’altro figlio, Filippo, introverso e disinteressato all’amministrazione del vastissimo patrimonio di famiglia, ne avevano certo mutato il carattere. Nel 1874 il duca di Galliera decideva di sovvenire con la donazione di venti milioni oro alla ristrutturazione e all’ammodernamento del porto di Genova. Si trattava di un atto di eccezionale munificenza.
Il contratto tra i duca di Galliera e il governo fu stipulato nel 1876. Il donatore impose alcune clausole e chiese che fossero rispettate alcune priorità: a favore della città richiese che sei milioni fossero destinati ad estinguere il debito contratto dal Comune verso lo Stato per l’acquisto della Darsena (in precedenza proprietà del Demanio). Nello stesso anno Raffaele De Ferrari fondava l’Opera pia De Ferrari Galliera, che singolarmente volle sottrarre alle disposizioni di legge relative alle opere pie e ad ogni ingerenza dell’autorità sia amministrativa che governativa. Quest’istituto fu deputato all’erezione di caseggiati per famiglie di lavoratori poveri che vi avrebbero abitato senza versare alcuna pigione, tenuti al solo rimborso delle spese vive.
I lavori di ristrutturazione del porto furono ultimati nel 1888: ci si accorse allora che il progresso avrebbe potuto essere maggiore. Il progetto Parodi, pur avendo raggiunto un costo davvero considerevole (63 milioni di lire), era già, per diversi aspetti, tecnologicamente superato. Esso era stato concepito, infatti, per la navigazione a vela, prevedendo spazi di manovra adeguati a navi di stazza ben inferiore a quelle che ormai si varavano.
3. Genova si estende. I nuovi ospedali e la donazione di Maria de Ferrari Galliera, nata Brignole Sale
Genova stava cambiando. Non era più quella della cerchia delle mura antiche. Si allargava. Nel 1874 si procedeva all’annessione dei comuni di Foce, San Francesco d’Albaro, San Fruttuoso, Marassi e Staglieno: la città guadagnava una superficie di 24 chilometri quadrati, che si aggiungevano ai soli nove chilometri quadrati del suo Comune. All’annessione delle frazioni suburbane avevano spinto ragioni di carattere economico, tra cui la necessità di trovare nuovi spazi per l’edilizia e di riequilibrare un sistema daziario fino ad allora assai sproporzionato, a tutto svantaggio degli abitanti del centro.
Rispetto agli ostacoli incontrati dall’espansione a ponente, certamente più agevole pareva l’urbanizzazione delle aree di levante. Era quello il periodo in cui l’edilizia si rivelava un grande affare. Con il Piano regolatore e di ampliamento della città di Genova dal lato orientale nella parte piana delle frazioni suburbane, approvato il 20 giugno 1877, il sindaco Andrea Podestà poneva le premesse di uno dei più vasti piani organici di ampliamento cittadino: si profilava il boom edilizio degli anni Ottanta e la singolare partizione tra il Ponente, destinato ad accogliere le attività industriali, e il Levante, destinato all’insediamento residenziale.
Proprio tra gli ultimi decenni del secolo scorso e il principio del Novecento sorgevano i nuovi ospedali civili assecondando quella che era diventata, con la crescita delle attività industriali, un’urgente necessità. Se ne dotavano anche i principali sobborghi genovesi: nel 1874 il Comune acquistava Palazzo Masnata, prospiciente via Cantore, a Sampierdarena, e vi istituiva un nuovo ospedale. Un altro ospedale si organizzava nella stessa zona al principio del Novecento, nella cinquecentesca Villa Scassi.
Sestri Ponente ebbe il proprio ospedale civile nel 1881, dopo la risistemazione di una villa patrizia di proprietà Sciallero-Carbone. Alcuni anni prima, nel 1874, anche il barone Martinez aveva devoluto parte del proprio patrimonio per la costruzione di un ospedale.
Maria Brignole Sale nel ritratto del pittore francese Leon Cogniet (Parigi, 1794-1880), con il figlio Filippo e il busto del figlio Andrea, morto sedicenne nel 1847. Da: museidigenova.it
Merita un posto di tutto rilievo, per la generosità straordinaria e instancabile dei suoi anni più tardi, Maria Brignole Sale (Genova, 1811 – Parigi, 1888), figlia dell’ambasciatore Antonio e di Artemisia Negrone, ultima della sua stirpe ed erede del vastissimo patrimonio dei Brignole Sale e, dopo la morte del marito Raffaele De Ferrari, duca di Galliera, e la rinuncia all’eredità del figlio Filippo, anche del patrimonio dei De Ferrari.
I genovesi erano stati, anche in passato, celebri per alcune grandi donazioni. Un lontano cugino della duchessa, Emanuele Brignole, aveva fondato, nella prima metà del Seicento, il celebre Albergo dei Poveri, un edificio così vasto e sontuoso – per chi lo avesse visto sorgere sulla città, arrivando a Genova dal mare – che per secoli i genovesi avrebbero potuto vantarsi di aver eretto, per i propri poveri, una “reggia”.
Maria Brignole Sale, nella seconda metà dell’Ottocento, fondò i tre ospedali San Filippo, San Raffaele di Coronata e Sant’Andrea, uno dei principali della città, oggi noto ai genovesi come ospedale ‘Galliera’. Questa triplice istituzione, che andò sotto il nome complessivo di Opera pia De Ferrari Brignole Sale, costò alla duchessa, per la sola edificazione ed adattamento degli immobili, l’incredibile cifra di 14 milioni del tempo. Ogni ospedale fu, inoltre, dotato di una rendita annua atta a sovvenzionarne il buon funzionamento. La costruzione dell’ospedale S. Andrea fu completata il 14 marzo 1888; quello stesso anno, il 9 dicembre 1888, la duchessa moriva, nella sua abitazione di Parigi. Della sua fervida attività di benefattrice occorre ricordare anche l’istituzione dell’Opera Pia De Ferrari Brignole Sale in Voltaggio, dell’Opera Pia Brignole Sale in Voltri, dell’Opera Pia dei fitti (quest’ultima ebbe lo scopo di aiutare i bisognosi della parrocchia di San Matteo nel pagamento delle pigioni e di organizzarne il risparmio).
Furono istituite con simile generosità anche le fondazioni volute dalla duchessa per la cura degli indigenti, dei bambini e degli anziani di Parigi (Ospizio De Ferrari, Orfanotrofio S. Filippo), ma si debbono alla sua generosità anche le due maggiori gallerie civiche genovesi, ospitate all’interno di due storici palazzi aristocratici, entrambi affacciati su quella che fu la via preferita dagli insediamenti nobiliari durante i secoli XVI-XVIII, Palazzo Rosso e Palazzo Bianco.
La storia dei due palazzi era strettamente connessa alla storia dell’ascesa sociale, del prestigio e della ricchezza della stirpe dei Brignole Sale e la duchessa, nel farne dono alla collettività, a buon diritto ritenne di far omaggio anche ai trascorsi illustri della propria famiglia. Nel suo insieme la quadreria dei Brignole Sale, ricca di capolavori, che la duchessa incluse nella propria donazione era una delle massime attestazioni dei simboli di potere e di prestigio adottati dall’aristocrazia per manifestare tangibilmente il proprio ruolo sociale.
4. La famiglia Brignole. I Palazzi Rosso e Bianco di via Garibaldi
I Brignole, originari dell’entroterra di Rapallo, appartenevano prima del XVI secolo a un ambito sociale di commercianti e di piccoli imprenditori che in quel periodo, tanto economicamente favorevole, poterono arricchirsi smisuratamente nell’arco di poche generazioni, accedere alle cariche pubbliche e, quindi, alla nobiltà (il primo Brignole iscritto alla nobiltà genovese fu Giovanni, figlio di Martino, nel 1528). All’estinzione dei Sale, con cui si erano imparentati, i Brignole ne acquisirono gran parte delle ricchezze, il marchesato di Groppoli e il relativo titolo nobiliare; a cominciare da Anton Giulio, celebre letterato e diplomatico del Seicento, ne assunsero, unendolo al proprio, anche il cognome. La costruzione di Palazzo Rosso, quasi a capo di Strada Nuova, uno dei maggiori interventi di urbanistica del XVI secolo e quartiere tipicamente nobiliare, si dovette ai due figli di Anton Giulio, Ridolfo Maria e Gio.Francesco (progetto di Pietro Antonio Corradi). La sontuosa affrescatura fu compiuta dai maggiori pittori genovesi del tempo verso la fine del Seicento.
Nel 1711 Maria Durazzo Brignole Sale acquistò Palazzo Bianco dai De Franchi, una famiglia, con lei fortemente indebitata, che, subentrando ai primi abitanti e costruttori, i Grimaldi, vi aveva risieduto a lungo, dal 1658 circa. Fino al 1889 Palazzo Bianco rimase di proprietà dei Brignole Sale, pur essendo stato affittato periodicamente a famiglie aristocratiche della città, che si alternarono nel sceglierlo a residenza e che vi organizzarono di volta in volta raccolte private di quadri, libri e statue, accessibili ad un pubblico di colti visitatori: collezionisti particolarmente distinti e appassionati furono il marchese Carlo Cambiaso, il dottor Giacomo Peirano e il marchese Carlo Donghi. Quest’ultimo trasferì temporaneamente in Palazzo Bianco una quadreria che comprendeva opere del Caravaggio, di Ribeira, Rubens, Procaccini, van Dyck, Sustermans e Sebastiano del Piombo (secondo la testimonianza di Federico Alizeri contenuta nella sua Guida di Genova, pubblicata nel 1875). Mentre Palazzo Rosso, per volontà della donatrice, avrebbe conservato il carattere di dimora patrizia e le collezioni in esso contenute non sarebbero state incrementabili, Maria Brignole Sale legava al Comune Palazzo Bianco con il preciso scopo di farne una galleria di opere d’arte antiche e recenti, comprendente sia le ampie collezioni dei Brignole Sale e dei De Ferrari Galliera, sia quelle già possedute dal Comune (che nel 1866 e nel 1875 aveva incamerato le raccolte del principe Odone di Savoia e di Giovanni Battista Assarotti; poi quella di Antonio Samengo).
Alla morte di Maria Brignole Sale si procedette dunque, secondo le sue disposizioni, alla trasformazione del Palazzo in Museo civico: di tale compito, non facile, fu incaricato il pittore Giuseppe Isola, già consigliere artistico dei duchi di Galliera.
5. Il testamento di Maria Brignole Sale: i suoi lasciti per la città di Genova. I Palazzi Bianco e Rosso, gli Ospedali
pagina del testamento olografo di Niccolò Paganini. Archivio di Stato di Genova
Nell’autunno 2017, a cura del Consiglio Nazionale del Notariato, fu organizzata a Genova, Palazzo Ducale, la mostra “Io qui sottoscritto. Testamenti di grandi italiani”. Furono esposti e commentati, in quella occasione, fra gli altri, i testamenti dei genovesi Cristoforo Colombo, Niccolò Paganini (si veda qui a fianco: si ricorda che, tra le varie disposizioni, il grande genovese decise di legare alla propria città il proprio violino “Cannone”), Gilberto Govi e Maria Brignole Sale. Riportiamo qui il testo delle “Disposizioni” di Maria Brignole Sale, documento di grande influenza per la storia del Novecento genovese: dalla storia artistica e culturale, alla storia (e alla riorganizzazione) della sanità pubblica.
Particolare rilievo Maria Brignole Sale dava, nel suo Testamento, al fatto che Palazzo Rosso si sarebbe dovuto conservare intatto, a permanente memoria della famiglia Brignole Sale, che in lei si estingueva. Palazzo Bianco, invece, sarebbe divenuto sede del primo museo della città. Importanti anche i capitoli relativi agli Ospedali e alla villa di Volti, oggi nota come “Villa Duchessa di Galliera”, all’interno della cui proprietà la duchessa dispose di essere tumulata. Particolare il legame con Voltaggio, borgo dell’entroterra rinomato per la qualità salutare delle sue acque, dove Maria Brignole Sale – come tanti altri celebri genovesi, Camillo Sivori fra questi – usava recarsi in villeggiatura.
DISPOSIZIONI testamentarie olografe della fu Signora Duchessa di Galliera Marchesa Maria Brignole Sale Vedova De Ferrari. T e s t a m e n t o
Umilmente prostrata nella presenza di Dio, oso implorarLo acciò Ei si degni sostenermi, dirigermi ed ispirarmi nell’atto solenne che sto per compiere, E pertanto trovandomi sana di mente e di corpo per mezzo del presente testamento steso, datato e firmato di mia mano, dispongo in tutto come segue.
1° Voglio essere tumolata nella cripta della Chiesa di San Nicolò sopra Voltri e, in oggi uffiziata dai Reverendi Padri Cappuccini, la qual Chiesa è di mia proprietà. Voglio che la mia spoglia mortale riposi dentro la tomba, ove è quella di mio figlio Andrea , De Ferrari, nel posto già da me determinato e designato. Voglio che sotto l’inscrizione in lingua francese, che sta sopra detta tomba, si incidano soltanto le parole seguenti: Aupres de lui repose sa mère Marie Brignole Sale Mcaise De Ferrari Desse de Galliera decedù à….. le….. Proibisco che si imbalsami il mio corpo, e che mi si erigano monumenti sontuosi. Voglio che i miei funerali siano fatti decentemente, però con molta semplicità. Ordino che nessuno dopo me possa mai venir tumolato nella cripta anzidetta, tranne mio figlio Filippo, sua moglie (quando l’abbia) ed i suoi discendenti in linea retta.
2° In suffragio dell’anima mia, voglio che dentro l’anno della mia morte, si celebrino mille cinquecento Messe a dieci lire cadauna, da distribuirsi tra Genova Voltri e Voltaggio, assegnandone di preferenza la celebrazione a Sacerdoti poco agiati. Voglio che alla mia morte si distribuiscano ai poveri lire cinquantamila (50.000) divise come segue cioè: – ventiseimila lire a Genova -quattordicimila a Voltri -diecimila a Voltaggio totale lire cinquantamila
3° Di tutti i miei beni, crediti e diritti ovunque esistenti, che mi apparterranno a tempo di mia morte, istituisco erede l’amatissimo mio figlio Filippo De Ferrari, il quale so che, lungi dal riconoscere una mancanza d’affetto nell’aver io disposto di gran parte del mio patrimonio, principalmente colle fondazioni di beneficenza prima d ‘ora fatte, con donazioni a parenti nostri, ed ad altre persone etc., troverà invece che mi sono studiata, ponendo in disparte la mia propria inclinazione, assecondare le tendenze e i desideri, da esso a me ripetutamente manifestate, in ispecie il suo disgegnio a possedere beni stabili e la sua preferenza pei redditi vitalizii. Con tutto ciò, lo ripeto di tutto cuore e colla più viva tenerezza materna, dichiaro erede universale il carissimo mio figlio Filippo De Ferrari.
4° Volendo provvedere alla conservazione del culto nelle due Chiese di mia proprietà poste nel territorio di Voltri sotto i titoli di San Nicolò e di San Francesco, nella prima delle quali esistono i sepolcri dei miei venerati genitori di mio marito di mio figlio Andrea, delle mie sorelle, e dell’avola mia paterna, e nella seconda i sepolcri di mia zia Msa Luigia Negrone Durazzo, e di suo marito Mse Gio: Luca Durazzo: volendo liberare ad un tempo la mia eredità da ogni obbligo e da ogni cura a questo riguardo, ho fatto e faccio le seguenti disposizioni: – Lego ed assegno in proprietà, sotto però le condizioni e modi infrascritti, alla Pia Opera Brignole Sale da me istituita in Voltri. 1° Le suddette due Chiese di San Nicolò e di San Francesco, in territorio di Voltri, e i due conventi antichi, ad esse uniti, da me restaurati, che sono pure di mia proprietà, insieme alle due ville, annesse ai medesimi. 2° I beni immobili seguenti cioè Possessione Maddalena Possessione Motta Possessione Rebuffa Case civiche alla Rebuffa Podere Castellone Tutti questi beni sono situati nel territorio di Novi Ligure, ed hanno attualmente un reddito netto di seimila lire. 3° Un capitale di centomila lire (100.000) I modi e le condizioni che impongo a questi legati sono i seguenti. (a) I locali tutti dei suddetti due antichi conventi e le due ville annesse continueranno ad essere, come al presente, abitati e goduti da Sacerdoti dell’Ordine de’ Cappuccini, coll’obbligo nei medesimi dell’uffiziatura di dette Chiese, cosicchè non possa la Pia Opera, finchè adempiano a quest’obbligo, privarli di detta abitazione e godimento, nè destinare ad altro uso detti locali e ville (b) Quando, per cause indipendenti dal fatto e volontà della Pia Opera, i sacerdoti dell’Ordine de’ Cappuccini cessassero di abitare i detti locali, e di ufficiare la Chiesa la stessa Pia Opera dovrà provvedere alla custodia ed al culto delle Chiese medesime, mediante la nomina di un custode, che abbia le qualità di sacerdote, e di un inserviente per ciascuna di esse, coll’obbligo ai due custodi di celebrare essi stessi, o far celebrare in caso di momentaneo e legittimo impedimento da altro sacerdote una Messa quotidiana nelle Chiese a loro rispettivamente affidate. La nomina dei custodi si farà dalla Pia Opera di concerto coi Parroci del paese di Voltri. (c) La Pia Opera farà celebrare in perpetuo, le funzioni anniversarie, in commemorazione e suffragio dei miei congiunti sopra nominati, le quali si celebrano attualmente, ed inoltre farà celebrare un’altra funzione anniversaria in suffragio dell’anima mia, alla data della mia morte. (d) Voglio che con la rendita dei beni stabili e del capitale sopra legati, la Pia Opera provveda alle spese di manutenzione e restauri ordinarii delle due Chiese e dei locali e Ville annessi, alle prebende dei sacerdoti, custodi, e di altri inservienti, quando venga a cessare l’uffiziatura dei Sacerdoti dell’0rdine dei Cappuccini, alle spese di culto nelle due Chiese, e a quelle delle funzioni anniversarie. (e) I Risparmi, i quali, dedotte le spese, sopravanzeranno sulla rendita dei beni e del capitale legati, saranno annualmente portati in capitale, ed impiegati a moltiplico fino a concorrenza di duecentomila lire le quali formeranno un fondo di riserva per le riparazioni e i restauri straordinarii di dette chiese, locali e ville, da ripianarsi ogni volta che in tutto od in parte, vengano consumati a tale uso. (f ) Finalmente, i risparmi, eccedenti il fondo di riserva, ed i frutti di questo fondo, quando sia completo, saranno dalla Pia Opera erogati in beneficenze nel Comune di Voltri. (g) I miei eredi avranno il diritto di volere l’adempimento delle condizioni e modi soprascritti, e di esercitare in giudizio le azioni, date dalla Legge a questo scopo, o derivanti dall’inadempimento della mia volontà. (h) Quando, per causa come sopra, i sacerdoti dell’Ordine dei Cappuccini, cessassero di abitare i locali e di uffiziarele chiese anzidette, voglio che l’obbligo della celebrazione di una Messa quotidiana nell’Orfanotrofio S. Antonio di Voltri, obbligo che incombe attualmente ai Cappuccini di san Francesco passi al Consiglio di amministrazione della Pia Opera Brignole Sale a Voltri, la quale vi provvederà sui fondi, dei quali ho disposto al di lei favore. E’ bene inteso che questa Messa è inoltre di quelle, parimente quotidiane, che ha obbligo di celebrare nella stessa Cappella dell’Orfanotrofio il Cappellano dello stabilimento.
5° Della mia villa a Voltri, e di tutti i beni annessi e dipendenze di ogni genere, e con tutti i mobili entrostanti lascio l’usufrutto a mio figlio Filippo De Ferrari, sua vita natural durante. La proprietà la lascio (salvo pei mobili ed altri oggetti dei quali avessi particolarmente disposto) alla Pia Opera Brignole Sale da me fondata in Voltri, coi seguenti oneri ed alle seguenti condizioni: 1° Che la villa sia in perpetuo conservata nel patrimonio della Pia Opera come un monumento, che io confidoalle sue cure, a perpetua memoria della mia famiglia, e di me, ed a decoro del paese, a cui diedi prova di tanto interessamento; confido che la Pia Opera rispetterà ed apprezzerà questi miei sentimenti. 2° Che la villa ed i suoi fabbricati, giardini, boschi, terreni, prati, fonti di derivazione di acque e dipendenze tutte, siano conservati e mantenuti in perpetuo nel migliore stato, e quali si troveranno alla mia morte. 3° Che i frutti e redditi della villa e dei beni, che la compongono, siano impiegati nelle spese di detta conservazione e manutenzione, ed il sopravanzo, vada in aumento della dotazione della Pia Opera, ed a benefizio dell’Orfanatrofio S.Antonio che ne forma l’oggetto. 4° Che la Pia Opera abbia facoltà dopo cessato l’usufrutto di mio figlio, di affittare il palazzo, e debba impiegarne il fitto negli stessi usi indicati nel numero precedente. 5° Che per nessuna causa, sotto nessun pretesto, possano mai darsi nel Palazzo e Villa, nemmeno per opera di beneficenza, feste pubbliche quali sarebbero balli, concerti, banchetti, fiere e cose simili.
6° Del palazzo De Ferrari, situato in Genova nella Piazza De Ferrari, dispongo come segue: Lego l’usufrutto di questo palazzo con tutte le sue adiacenze, a mio figlio Filippo De Ferrari, sua vita naturale durante, ad eccezione dell’appartamento, ove in oggi ha la sua sede l’amministrazione dell’Opera Pia De Ferrari Galliera (case operaie) fondata dal fu mio marito, la quale continuerà a goderne per detto uso, alle condizioni, con cui ne gode attualmente, senza che il fitto ne possa mai venire aumentato . La proprietà di detto palazzo e sue adiacenze la lego all’Opera Pia De Ferrari Brignole Sale da me fondata in Genova, sotto però gli oneri e condizioni seguenti. 1° Che cessato l’usufrutto di mio figlio, il reddito del palazzo sia impiegato a migliorare il più possibile le condizioni dei poveri infermi e vecchi ricoverati negli Ospedali S. Andrea Apostolo San Filippo Apostolo a Genova, e nell’Ospizio San Raffaele a Coronata. 2° Che l’Opera Pia continui a lasciar l’uso dell’appartamento su mentovato all’amministrazione delle case operaie alle stesse anzidette condizioni. 3° Che nel palazzo De Ferrari non possano mai darsi, né permettersi dalla Pia Opera in alcun tempo, nemmeno a titolo di beneficenza, feste pubbliche, quali sarebbero balli, concerti, banchetti, fiere e cose simili. La mobiglia di ogni specie, della quale non avrò disposto, la cantina, i vini, tutto ciò insomma che si troverà nell’appartamento e nei locali di mia abitazione nel palazzo De Ferrari apparteranno a mio figlio.
7° Lego mio figlio, Filippo De Ferrari, l’usufrutto del palazzo e dei giardini, che io posseggo a Voltaggio come anche della casa attigua, dove abita il fattore, e delle adiacenze. Di detto palazzo, dei giardini, casa del fattore, e adiacenze tutte, io mi sono riservata la proprietà nell’atto di donazione in Notaro Borsotto, 22 dicembre 1877; e così pure lego a mio figlio l’uso di tutti i mobili ed oggetti che colà si troveranno alla mia morte. La proprietà di detto palazzo, del giardino, e tutte quante le adiacenze le lego all’0pera Pia De Ferrari Brignole Sale. Quando, dopo la morte di mio figlio, la Pia Opera diverrà proprietaria, intendo e voglio che detto legato sia appropriato ad uso di ricevere di convalescenti per ricoverare cioè i poveri convalescenti che, sortendo dai miei ospedali di Sant’Andrea Apostolo es.Filippo Apostolo, specialmente dal secondo, destinato a fanciulli, fossero dai medici creduti in caso di poter trar vantaggio dall’aria e dall’acque di Voltaggio. È mia volontà che questi beni non ricevano mai destinazione diversa da quella, che qui esprimo, e che non servano mai ad altri usi, nemmeno temporaneamente, né siano mai adoprati a quelle di feste pubbliche, balli, concerti, banchetti, fiere e cose simili, neanche a titolo di beneficenza. Voglio che siano soggetti alle stesse regole di amministrazione, prescritte per gli ospedali di s. Andrea Apostolo e di s. Filippo Apostolo in quanto vi siano compatibili.
8° Estendo alla Chiesa, al convento ed alla Villa dei padri cappuccini che io posseggo nel Comune di Voltaggio le disposizioni del precedente paragrafo 7, così in usufrutto, come in proprietà, lasciando l’usufrutto di detti beni a mio figlio Filippo De Ferrari, e la proprietà all’Opera Pia Da Ferrari Brignole Sale. Voglio ed ordino che la chiesa continui ad essere ufficiata, ed il convento abitato dai padri cappuccini (col godimento anche a loro favore della villa) finchè sussisteranno. Quando poi più non esistessero o quando per qualsiasi causa, questa mia volontà non potesse più avere esecuzione, la Pia Opera dovrà destinare i detti beni a migliorare ed estendere il ricovero di convalescenti in conformità ed armonia di quanto ho disposto qua sopra paragrafo 7.
9°. Lego in proprietà alla Pia Opera De Ferrari Brignole Sale da me fondata in Genova, il convento, chiesa e villa delle Monache Cappuccine, situati in Genova nella salita di San Nicolò, a condizione però, e non altrimenti che la detta Pia Opera lasci i detti beni ad uso ed abitazione delle Monache Cappuccine, che vi si troveranno ricoverate al tempo della mia morte, finchè vivranno e vorranno rimanervi, e di quelle ancora che, essendo native degli antichi Stati della Repubblica di Genova, chiedessero in avvenire di esservi ricoverate, e ciò finchè il loro Ordine sarà riconosciuto dalla Chiesa. Lego pure all’Opera Pia De Ferrari Brignole Sale in proprietà, la casa e villa situata in Genova nella salita di San Simone salvo l’usufrutto che intendo lasciare al Signor Giuseppe Torre, e alle sue figlie.
10° Lego all’Opera Pia De Ferrari Brignole Sale un appartamento composto del primo e secondo piano della casa già Boselle, situata in Genova, lungo la salita di San Simone. Il primo piano si compone di sala grande, due camere ed una cucina, oltre un terrazzo verso mezzogiorno, ed un piccolo vuoto a levante. Il secondo piano si compone di piccola sala, e sei camere. Verso tramontana è annesso a detto sito un terreno a uso di villa tutto clausurato da muri. Lego l’uso e l’abitazione del qua sopra mentovato appartamento e suoi descritti accessori al s.e. Giuseppe Torre, ed alle sue sei figlie, a nome Teresa, Emilia, Maria, Carlotta, Serafina e Luigia. In modo che, finchè un di loro vive, godrà del diritto d’uso e di abitazione di tutto il detto appartamento e dipendenze, e non potrà l’Opera Pia legataria disporne per affittarlo, o altrimenti goderne, fino a quando non siano estinti detto s.re Giuseppe Torre , e tutte le sue figlie. Dispenso il Signor Torre e le sue figlie dall’obbligo di dar cauzione, e pongo anzi a carico dell’Opera Pia l’onere di tutte le manutenzioni ordinarie e straordinarie, il pagamento delle imposte, e qualsiasi altre spese relative.
11° Lego all’Opera Pia De Ferrari Brignole Sale la piena proprietà del mio tenimento di Corte-Palasio in territorio di Lodi, con l’onere però di pagare a mio figlio Filippo De Ferrari, sua vita natural durante, ed a semestri anticipati, la rendita vitalizia di annue lire quarantamila, che costituisco a favore del detto mio figlio sul tenimento stesso come condizione del legato, e con ipoteca speciale su tutti gli immobili, che lo compongono.
12° Lego al Municipio di Genova la casa da me posseduta in Genova, salita di Castelletto al numero civico 5, sotto però le seguenti condizioni: 1° Che il Municipio non possa mai disporne, e debba conservare in perpetuo la casa e sue adiacenze nello stato, in cui ora si trovano, ne possa mai farsi esteriormente alcuna innovazione e opera qualsiasi, sotto pena della risoluzione del legato in caso di contravvenzione. 2° Che debba pagare annualmente, ed in perpetuo, alla suddetta Opera Pia De Ferrari Brignole Sale la somma di lire diecimila, pagabile a semestri anticipati, a titolo di rendita fondiaria, che intendo costituire e costituisco in detta casa, a favore della Pia Opera con ipoteca speciale nella medesima.
13° Dichiaro che i soprascritti due legati del tenimento di Corte-Palasio e della rendita sulla casa in Castelletto, io li ho fatti e li fo alla Pia Opera coll’intendimento ed alle condizioni seguenti, cioè che sebbene io credo di avere adempiuto a tutti i miei impegni di fondatrice, mediante le assegnazioni fatte, e le disposizioni scritte negli atti in notaro Ghersi 28 marzo 1882 e 28 marzo 1883 pure a maggiore benefizio della Pia Opera, ho voluto aggiungere i detti due legati, sia in aumento di donazione, sia per supplire alle diminuzioni, che si verificassero nella rendita assegnata, sia infine e molto più a compimento e saldo di quanto potesse per avventura essere da me dovuto alla Pia Opera, e perciò sotto l’espressa condizione che, mediante questi due legati essa, sia e si intenda pienamente soddisfatta d’ogni suo avere; e mediante l’accettazione dei medesimi si intendaaver rinunziato a qualunque diritto o azione contro la mia eredità ed il mio erede, i quali non potranno mai in verun modo, né in verun tempo né per verun titolo, essere molestati.
14° Allo scopo di conservare di crescere in Genova l’amore delle Belle Arti, scopo che ispirò la donazione fatta da me e da mio figlio, Filippo De Ferrari, al Municipio di Genova del palazzo Brignole Sale detto palazzo rosso e della galleria e biblioteca entrostanti, ho deliberato di erigere una sede conveniente per la formazione di una pubblica Galleria, e per le annuali Esposizioni artistiche, decorando la Città di Genova di un lustro, che le manca. A questo effetto lego al Municipio di Genova in piena proprietà il mio palazzo in Via Nuova in oggi Via Garibaldi al Civico N. 13 detto volgarmente palazzo bianco con i seguenti oneri e condizioni. (a) Anzitutto vieto al Municipio di disporre in qualsiasi modo del detto palazzo e gli impongo l’obbligo di mantenere e di conservare in perpetuo il palazzo ed i suoi giardini, terrazzi ed adiacenze tutte, nello stato in cui attualmente si trovano, con divieto di fare al di fuori innovazione alcuna, e specialmente di fare nei giardini, terrazzi e adiacenze, nuove costruzioni, opere e lavori di qualsiasi natura e qualità, e sotto qualsivoglia pretesto, o motivo. Ed il qua espresso precetto e divieto intendo e voglio che formi condizione risolutoria dal legato di guisa che in qualunque tempo il Municipio contravvenisse al medesimo si intenda di pien diritto, e per il solo fatto della contravvenzione, risoluto il legato e la proprietà del palazzo ritorni alla mia eredità ed ai miei eredi. (b) Il piano nobile superiore del palazzo, assieme al giardino e terrazzo annessi, sarà destinato in perpetuo per metà a sede di una pubblica galleria di Belle Arti, e per metà alle Esposizioni artistiche annuali. (c) La galleria si formerà coi quadri ed altri oggetti d ‘arte o di mobilio che io lego al Municipio, e colle pitture statue ed altri oggetti d’arte antica e moderna, che si andranno di mano in mano acquistando dal Municipio, o che in lui perverranno per lasciti e donazioni, quando ne siano giudicati degni. L’acquisto e l’accettazione degli oggetti d’arte dovranno farsi a giudizio del Corpo dei Professori dell’Accademia Ligustica di Belle arti, e la direzione di questa galleria sarà affidata al Conservatore della galleria del palazzo rosso. Se a quel tempo sarà ancora in ufficio l’attuale Conservatore Professore Isola, gli sarà raddoppiato lo stipendio. (d) Gli altri piani, appartamenti, magazzini, botteghe e locali del palazzo bianco dovranno essere dati in affitto in modo da trarne il maggior reddito possibile, e questo reddito sarà impiegato nell’acquisto di oggetti d’arte antica e moderna per la formazione della galleria. (e) Quando formata la galleria il reddito eccedesse il bisogno di nuovi acquisti, il sopravanzo anderà in aumento di quello del palazzo rosso per esserne impiegato negli usi stabiliti nell’atto di donazione in Notaro G. Balbi 12 gennaio 1874 le disposizioni del quale atto dovranno del resto esse¬ re osservate anche pel presente legato, in quanto possano essere applicate.
15° Lego ugualmente al Municipio di Genova i mobili, quadri ed altri oggetti descritti nei due inventari uniti al presente testamento scritti, datati e firmati di mia mano, e quelli che senza esser notati negl’inventarj porteranno in un posto qualunque l’impronta del mio stemma o della mia cifra. Detti oggetti di cui parte nel mio appartamento a Genova parte nella mia villa a Voltri, non verrano in proprietà del Municipio se non dopo la morte di mio figlio a cui ne lascio l’usufrutto sua vita natural durante. A quell’epoca intendo che vengano collocati, ed in perpetuo conservati nel palazzo bianco per formare parte della galleria sopra ordinata. Intendo poi, in quanto ai mobili, quadri ed altri oggetti suddetti, che mio figlio possa disporne a suo piacimento, così che il Municipio debba contentarsi di quelli che non saranno stati da lui alienati. Dopo la morte di mio figlio voglio che il mio ritratto a olio dipinto dal pittore genovese Picasso poco tempo dopo il mio matrimonio, il quale ritratto è nel mio appartamento a Genova sia collocato nel palazzo rosso ove sono i ritratti di mio padre e di mia madre, e posto in mezzo ai medesimi. Qualora alcuni dei quadri, o altri oggetti, quali sopra mentovati, non sembrassero adattati ai locali del palazzo bianco voglio che in tal caso siano collocati in quelli del palazzo rosso, specialmente nelle sale della biblioteca. Il gruppo di marmo, rappresentante il Dre Jenner inoculando il vaccino al proprio figlio, opera dello scultore Monteverde, riposto attualmente in un piccolo salotto del mio appartamento a Genova, farà parte dopo l’usufrutto di mio figlio, della galleria del Palazzo bianco.
16° Dispenso mio figlio dall’obbligo di far inventario e di dar cauzione pei beni tutti, dei quali gli lascio l’usufrutto, volendo ed intendendo che egli non abbia mai ad essere esposto a qualsiasi molestia, sotto nessun rapporto; cosicchè coloro, ai quali sarà devoluta la proprietà, debbano contentarsi di riceverlo nello stato in cui egli lo lascerà.
17° Dichiaro che colle disposizioni fatte nel presente testamento a favore della Pia Opera De Ferrari Brignole Sale, non intendo derogare a quanto ho disposto negli articoli 7 e 8 dell’atto di fondazione della stessa Opera Pia in data dei 22 dicembre 1877 Notaro Borsotto.
18° Dichiaro altresì che le disposizioni del presente testamento sono totalmente distinte e separate da quelle che sto per prendere o che io possa prendere in avvenire relativamente ai miei beni in Francia o altrove fuori d’Italia.
19° Finalmente dichiaro che tutte le spese di registro ed altre derivanti dalle disposizioni che prendo nel presente testamento e da tutte quelle che potrò prendere in avvenire, saranno per mio espresso volere a carico della mia eredità.
20° Nomino miei esecutori testamentari per quello che spetta della mia eredità in Italia i Signori Avvocato Gabella, Senatore del Regno, Amministratore della Pia Opera De Ferrari Brignole Sale Avvocato Andrea Peirano ed il Sindaco pro tempore della Città di Genova. E per riconoscere l’opera loro a mio riguardo prego ognuno di essi a voler gradire, tosto compiuta la detta loro opera, quale memoria di me, una gioja per ciascheduno di ventimila lire (ventimila).
Genova venti Marzo Milleottocento ottantaquattro. Genova 20 Marzo 1884 Maria Brignole Sale D.essa di Galliera Visto in Genova 19 Dicembre 1888 A.Berlingeri, Tommaso Lagomarsini, Carlo Villa Leonardo Ghersi Nota