Il Senegal e il Mali di Aimé Sterque soldato e fotografo in AOF

Tra il 1892 e il 1903 Aimé Sterque, soldato e ufficiale francese, per diletto appassionato e consapevole fotografo, scatta fotografie di vita quotidiana e le invia alla famiglia, in Francia. Oltre 100 anni dopo, per merito della nipote e della pronipote, quelle fotografie diventano una mostra e un libro che si presenteranno a San Salvatore Monferrato, per il Settembre Sansalvatorese, giovedì 3 ottobre 2019, alle ore 21, nella Biblioteca Civica

Straordinario o normale?

Che cosa c’è di straordinario nell’avventura di Aimé Sterque(1870-1911), questo soldato-ufficiale francese che, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, si trova di stanza in Senegal e Mali, ovvero in quella parte di Africa che, al tempo, aveva nome di AOF, Africa Occidentale Francese?

la copertina del libro-catalogo dedicato alle fotografie di Aimé Sterque che si presenterà a San Salvatore Monferrato, nella cornice del Settembre Sansalvatorese 2019, il 3 ottobre 2019, ore 21, nella Biblioteca Civica

È straordinario – credo – il fatto che le sue fotografie, una collezione di 39 pezzi, siano giunte fino a noi, sguardo intonso (e qualche volta intenso, altre quasi occasionale e svagato) sulla vita quotidiana del Senegal e di quell’ampio paese, semidesertico e vivo della sola vita dei fiumi Niger e Senegal, che allora aveva nome di “Soudan Français” e che oggi si chiama Mali. Sono straordinari la cura, l’amore famigliare, con cui, con la competenza di studiose, nipote e pronipote, Hélène Giaufret Colombani e Anna Giaufret, professoresse di letteratura francese, hanno conservato e studiato questa collezione di immagini.

Lo “sguardo fotografico” di Aimé Sterque e il suo desiderio di fotografare per registrare e per sperimentare

Aimé Sterque ebbe responsabilità di comando, ma non fu uno di quegli uomini che decidono la storia. Non ebbe ruoli apicali. Fu, però, uno dei tanti uomini che, in ogni epoca, fanno la Storia, nel senso che ad essa contribuiscono, con il proprio dovere di ogni giorno e con la propria azione quotidiana. Fu tra gli uomini che “portano il proprio pezzo” alla Storia. Ed è proprio questo un altro elemento di straordinarietà: poter gettare lo sguardo oltre la barriera delle giornate comuni di un soldato francese in Africa Occidentale e guardare, con i suoi occhi, il mondo che lo circondava, prendendone a prestito la curiosità che fu sua. Ci pare straordinaria, in questo, la documentazione dei gesti quotidiani, come quelli registrati dalle immagini di Aimé e raccolti nella sezione (della mostra e del libro) Il mercato di Kayes.

Dal punto di vista fotografico, come spiegano, nei rispettivi contributi, Elisabetta Papone e Martina Massarente, Aimé Sterque era assai aggiornato. Dilettante, ma dilettante appassionato e competente, Aimé faceva uso di tecniche fotografiche che, come il cianotipo e la stereofotografia, denunciavano il suo desiderio di provare e “forzare” perfino, ogni volta che se ne avesse la possibilità, i limiti della tecnica fotografica.

Dal catalogo “Vues du Sénégal et du Soudan Français”, p. 62. Il mercato di Kayes

I cianotipi, soprattutto, meno contrastati delle stampe a contatto, meno nitidi delle stampe fotografiche, raffigurano, dietro la patina azzurra, un mondo che ci pare accentuato nella sua irrealtà, ma che, quando Aimé lo inquadra, per conservarne il ritaglio sulla carta fotografica, corrisponde a canoni classici di equilibrio dei pesi e di armonia dei gesti. Come nella fotografia scattata al mercato di Kayes, appunto, dove la giovane donna che si flette in avanti, nel secondo piano, che è in realtà il primo a offrirsi allo spettatore integro, segna il dinamismo e ritaglia lo spazio: quello che Aimé sceglie è il suo contorno, coi due uomini seduti subito dietro e quelli che passano, in diagonale, sullo sfondo chiuso di un fondo alberato. Ed è similmente irreale il villaggio di capanne rettangolari (p. 67) – una visione crepuscolare? Uno scatto rubato prima del sorgere del sole? – e il passeggio di coloni e di locali sul ponte metallico Faidherbe a Saint-Louis, in Senegal, che riemerge dalla carta azzurra come un vero notturno (p. 35).

Qualche volta il segno della modernità che l’Occidente ha importato si impone sul mondo senza tempo degli indigeni: il battello a vapore, che attracca a riva, riempie tutta la scena. “

Aimé Sterque

Aimé Sterque che ferma la vita quotidiana per regalarne frammenti alla famiglia lontana. Che fa mettere in posa giovani donne, le sorridenti famiglie dei locali che l’esercito francese aveva impiegato, con le quali, s’immagina, doveva avere una certa famigliarità. O che si avvicina, con la macchina fotografica tra le mani, senza essere visto, e scatta, fermando il gioco dei bambini sulle rive del fiume Senegal o il lavoro delle donne, che lavano panni, andando e venendo con le grandi mezzesfere delle calebasse, condotte in equilibrio sul colmo delle teste.

Qualche volta il segno della modernità che l’Occidente ha importato si impone sul mondo senza tempo degli indigeni: il battello a vapore, che attracca a riva, riempie tutta la scena. E così fa il ponte d’acciaio, a campate ribassate, straordinariamente moderno (e non “normale”), nel mezzo del fiume percorso a forza di remi. È l’immagine che abbiamo scelto per la copertina del libro: la modernità, presa di taglio, prospettica come una profezia, incisa, lacerante, eppure capace di convivere con il ritmo antico del remo.

Questi contrasti tra tradizione locale e imposizione coloniale Aimé non andava a cercarli – così, almeno, ci pare. Non c’è, si direbbe, un orgoglio francese, occidentale, colonialista, nella descrizione degli edifici calati tra campi polverosi e steli vegetali di foglie e spine, ma forse il desiderio di far vedere alla famiglia, rimasta in Francia, che un po’ di Francia ce l’aveva anche lui, lì attorno, e, dunque, di trovare con chi era tanto lontano, consonanze che restano, d’altra parte, niente alto che dati: non malinconiche, non orgogliose. Fa sorridere qualche volte la scena e, anche quando potrebbe sembrare che il soldato-ufficiale Aimé Sterque cada nella trappola del razzismo – “trappola” che, per il mondo in cui egli viveva, era modello più comune di pensare – è il sorriso, il tratto d’humour, quello che prevale e la consapevolezza che ciascuno vive, a suo modo e secondo le sue possibilità, la vita che ha. Nessuno – ci dice Aimé con i suoi scatti più erranti, colti sulle sponde del fiume, tra le capanne, dentro i mercati – è migliore di un altro.

Ed anche questo modo di guardare – ci pare – è molto più straordinario che normale [s.t.].

“La foto che non c’è” di Maria Cicconetti e il tema della violenza

Maria Cicconetti invitata a Cigliano per una conferenza sul tema della violenza

Cigliano, settembre 2019 – Quanti modi di dire: violenza! L’abbandono è uno di questi. Perché “violenza” non è soltanto quella che si fa colpendo, ferendo, offendendo il corpo. Non è poco, certo. Ma non è tutto. C’è una violenza che entra dentro di noi e che non ci lascia più. Maria Cicconetti ne ha scritto nel suo libro autobiografico La foto che non c’è (acquistalo qui con uno sconto speciale!) – libro in cui la violenza ha la sua soluzione nel perdono, soluzione difficile da concedere, che però ripaga. Ripaga perché, come nel libro si dice e come Maria ripete con la sua testimonianza, il perdono è portatore di un dono: la pranoterapia, con cui Maria, da tanti anni ormai, porta sollievo alle sofferenze altrui.

Maria, oltre a scriverne, ne ha raccontato. Con coraggio, davanti al pubblico attento di Cigliano, in compagnia del dottor Gino A. Torchio. Proprio così come in questo scorcio di video si potrà rivedere.

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Alla Feltrinelli di Genova con “Di uomini e di animali” di Donatella Mascia

10 luglio. E’ un mercoledì. Giornata di caldo intenso: fa così, ormai, da qualche settimana a questa parte. Come tutti gli altri – come le persone per la strada, sugli autobus, nelle code alla Posta – ci lamentiamo un po’ anche noi. “Non mi ricordo un caldo così”, dice una signora, mentre aspetta che la presentazione cominci. E’ di quelle che cinque mesi fa dicevano: “Non mi ricordo un freddo così”.

Io, invece, un caldo così lo ricordo. Era il 13 luglio 2018, l’ho ben chiaro. Avevamo presentato Quando la notizia è buona, di Dino Frambati, ed era, come ogni anno a luglio, estate piena.

“Eh, sì, fa caldo. Qui, però, c’è un po’ d’aria condizionata”, mi provo a dire. Voglio partire con il buonumore. Di tutti, possibilmente. Leggi…