Erano partiti pieni di entusiasmo. In quattro: con Camillo Sivori, enfant prodige di appena 12 anni, erano lo zio Nicolò, il fratello Nicolino, il maestro Agostino Dellepiane. Da Genova, nel maggio 1827, erano andati a Londra, poi a Parigi. Per attraversare la Manica avevano preso un passaggio su un battello a vapore. Tempo bello, mare calmo. Il viaggio era durato circa quattro ore: dalle 9, quando si erano imbarcati a Calais, alle 13, quando erano scesi a Dover. A Londra i Sivori potevano contare su amicizie importanti. Forse per intercessione di Giuditta Pasta, Camillo aveva suonato all’Her Majesty’s Theatre e all’Argyll-Rooms. Era stato un successo. Ma, poi, con l’arrivo dell’estate, la stagione dei concerti era finita, Londra si era svuotata e i Sivori si erano spostati in Francia, a Parigi. Parigi era stata prodiga di incontri eccellenti e di elogi; non di concerti da cui trarre “sostanza”, ovvero risultati economici sufficienti a rientrare delle spese. Da Genova, Alessandro Sivori, padre di Camillo e finanziatore di quella tournée sui generis, se ne dispiaceva. E Camillo più di lui. Gli scriveva, dunque, da Lille, l’11 giugno 1828: “Sento che Paganini guadagna molti denari a Vienna, era meglio che aspettassi ancor io di avere quarantacinque anni per andare a Londra, e venire a Parigi, perché in tal modo non avrei occasionato a V.S. tante spese, ma ci vuole pazienza; stia allegro che procurerò di guadagnare in seguito studiando molto, e bene”. Sotto aggiungeva i suoi saluti affettuosi, inviati al padre e alla madre, e il suo nome: “Camillo”. Quella promessa, vergata con caratteri ancora infantili (li riproduciamo qui, per un piccolo pezzo), colpisce. Vi si trova un misto di amarezza e di positiva caparbietà. Camillo Sivori, al padre che teme di aver deluso, fa una promessa che segnerà la sua vita: studiare, studiare “molto, e bene”.
E mentre ci chiediamo (oggi, giornata della scrittura manuale) che cosa mai sarebbe rimasto di questi sentimenti e pensieri, se, invece che essere scritti a penna, su un pezzo di carta, furtunosamente recapitato da Lille a Genova 195 anni fa e ancor più fortunosamente per 195 anni conservato, fossero stati affidati a un’email o a un messaggio… ricordiamo il nostro volume di Atti del Convegno Internazionale di studi “Paganini: genesi ed eredità di un mito”, Genova 25-26 ottobre 2021, nell’ambito del Paganini Genova Festival 2021, a cura di Mariateresa Dellaborra, Roberto Iovino e Danilo Prefumo, Serel | Stefano Termanini Editore, pp. 322 (li trovi in libreria e a questo link: https://bit.ly/Paganini_genesi_eredità_di_un_mito ).
Amplissima la messe dei contributi pubblicati, tutti di alta qualità, su Paganini, la sua opera e i suoi “eredi”. Primo di questi, Camillo Sivori. E su di lui ci piace ricordare, fra i molti e importanti saggi che, nel libro, meriterebbero di essere commentati e che altrove commenteremo, il lavoro di Flavio Menardi Noguera e Stefano Termanini sulla tournée americana che Camillo Sivori avventurosamente compì, accompagnato dal fratello Giovanni Battista, tra il 1846 e il 1850.
Giovedì 26 gennaio 2023, alle ore 16, presso la Fondazione Carige (Palazzo Doria Carcassi, Sala Arazzo – via Chiossone 10, Genova), l’Associazione Amici della Poesia «Il Corimbo», organizza la presentazione del libro di Rita Parodi Pizzorno «Una vacanza a Parigi».
Genova – Giovedì 26 gennaio 2023, alle ore 16, presso la Fondazione Carige (Palazzo Doria Carcassi, Sala Arazzo – via Chiossone 10, Genova), l’Associazione Amici della Poesia «Il Corimbo», organizza la presentazione del libro di Rita Parodi Pizzorno «Una vacanza a Parigi», Serel | Stefano Termanini Editore, pp. 56. Presenterà il libro Stefano Termanini, editore. Letture di pagine scelte tratte dal libro di Rita Parodi Pizzorno saranno affidate, oltre alla stessa autrice, a Angela Cilia e Pier Francesco Aliberti. Gli intermezzi musicali sono a cura di Leopoldo Meozzi.
«Una vacanza a Parigi» di Rita Parodi Pizzorno, poetessa e narratrice genovese, con al proprio attivo una ventina di libri, racconta in forma poetica l’esperienza di un primo viaggio, compiuto nell’agosto 1959, quando l’autrice era ancora studentessa. Scegliere di spendere il proprio tempo di vacanza a Parigi, con una amica, significa dare soddisfazione al proprio desiderio di sapere e di indipendenza. «Fu il primo viaggio in treno, / la prima volta al ristorante», scrive l’autrice. Così comincia il poemetto. Annota Stefano Termanini nell’introduzione «Il senso delle prime volte, che dà alla partenza un valore nuovo, è a sua volta intriso di un sentimento di indipendenza, che coincide con l’accesso all’età adulta ed è un modo – da scoprire, da sperimentare e, perciò, fragrantemente nuovo – di affrontare il mondo». Come fece Stendhal davanti alla sontuosa bellezza della storia e dell’arte italiane, ma in una sorta di percorso simile e contrario, l’autrice si incanta davanti ai palazzi parigini, alla Torre Eiffel, alla reggia di Versailles, alla tomba di Napoleone. Parigi, meta agognata, celebrata nel ricordo, «è – si legge ancora nell’introduzione – meta dell’avventura e della scoperta di sé dentro la scoperta del mondo».
Rita Parodi Pizzorno, nata a Genova, si è occupata di scrittura di invenzione e di saggistica, scrivendo, in particolare, una dissertazione su Federico Garcia Lorca e interpretando testi di Emily Dickinson. Ha pubblicato numerose raccolte di poesie: Prime poesie, con prefazione di Luigi Surdich, nel 1993; Viaggio a Praga, con prefazione di Alessandro Massobrio, nel 1997; Preludio notturno, con prefazione di Paolo Ruffilli, nel 2003; Guglie gotiche. Viaggio in Germania, con prefazione di Graziella Corsinovi, nel 2007; Imago poetae II, con la prefazione di Graziella Corsinovi, nel 2010; Un mondo intimo di poesia, con l’introduzione di Roberto Trovato, nel 2015. Nel 2018 ha raccolto in un unico volume, con postfazione di Roberto Trovato, tutti i libri di poesia pubblicati e vi ha aggiunto alcune poesie inedite e traduzioni in inglese. Nel 2021, traendo ispirazione dalla tragica vicenda della pandemia, ha pubblicato Le AnticheMura, con prefazione di Rosa Elisa Giangoia e nota di lettura di Stefano Termanini. Il poemetto è dedicato a Genova, città natale e amata, rivista attraverso l’immaginazione e il sentimento, in quel periodo di “quarantena” in cui il mondo intero si è fermato. |
Nicole Freddi, garante per i disabili del Comune di Casale Monferrato, ha organizzato la prima “Giornata del Benessere”
Lo scorso 15 maggio, presso i locali del complesso del ristorante La Torre, in via Candiani d’Olivola a Casale Monferrato, si è tenuta la prima edizione delle “giornate del benessere”, a cura di Nicole Freddi, esperta di aromaterapia e garante per i disabili del Comune di Casale Monferrato. «Esplorando i sentieri del benessere» è il titolo che Nicole Freddi ha scelto per questa prima “giornata”, che ha visto succedersi interventi di Paola Fongi, floriterapeuta, Alessandra Crova, farmacista, esperta in fitoterapia e floriterapeuta, Marina Cabella, reikimaster, Maria Cicconetti, pranoteraputa, autrice con Gino A. Torchio, medico e scrittore, di Mani che curano. La pranoterapia nella mia vita (Stefano Termanini Editore).
«Era normale per gli antichi – ha detto Paola Fongi – cercare nella natura la cura delle malattie. La naturopatia è, perciò, disciplina originaria e molto antica, che entra nell’ombra quando la scienza diventa il solo strumento di interpretazione dell’universo e del mondo. È soltanto nel Novecento che si riscopre l’energia come il fluido che dà forma all’universo. Il rapporto tra noi e le cose viene, di conseguenza, rivisto. Noi siamo una rete di relazioni con scambio di energia. Se ci pensiamo dentro un sistema così fatto, cambiano la nostra posizione e la nostra responsabilità nei confronti del cosmo: ritroviamo l’idea della natura che cura». Paola Fongi è esperta di fiori di Bach, che – spiega – sono «mediatori di un’energia». L’energia ha un’efficacia nel contribuire al benessere degli esseri viventi quando sia canalizzata con intenzione. «Occorre essere consapevoli e responsabili: di ciò che si fa e di ciò che si riceve», aggiunge. Noi non siamo un insieme di “pezzi”: la persona va curata nel suo insieme. Fa un esempio: «Non possiamo pensare che un male al gomito sia soltanto un male al gomito». Ogni “disagio” produce un “disturbo”; ogni disturbo va compreso in quanto effetto di un disagio, sul quale intervenire con la cura.
Alessandra Crova, oltre a essere farmacista, è consulente in Fiori di Bach secondo il metodo tradizionale. Comincia il suo intervento presentando la figura di Edward Bach (1886-1936). Bach disse che «la salute è essere in armonia con la propria anima e che ogni squilibrio è potenziale causa di malattia». D’altra parte, «non tutte le persone sviluppano una malattia benché esposte allo stesso patogeno». Da quando, nel 1936, fu dimostrato che gli agenti stressogeni contribuiscono all’atrofia del timo e, dunque, al crollo del sistema immunitario (Alessandra Crova cita l’endocrinologo Hans Selye), l’intuizione del dottor Bach, secondo cui «salute è un’armoniosa unione di corpo, mente e anima» ha la sua base scientifica. I Fiori che prendono il suo nome sono «38: 37 dei quali sono tinture madri e uno è acqua di fonte». Devono essere assunti consapevolmente – spiega – nel senso che occorre capire la logica che sottendono e che è integrale: si vuole «prendere in considerazione la persona nel suo intero». Peraltro, i Fiori di Bach sono «compatibili con ogni forma di trattamento, vanno bene a ogni età, non hanno effetti collaterali». L’idea è «agire sugli stati energetici» e stimolare «il potenziale di autoguarigione» del soggetto in cura. Diceva Bach di considerare «privilegio e dovere di ogni medico imparare a guarire sé stesso» e che la guarigione deve venire «da dentro noi stessi». Alessandra Crova conclude facendo ricorso a un’immagine: «I Fiori sono come un’onda sonora. Bisogna dosarli opportunamente. Se mescolo troppi suoni insieme, non sento armonia, ma rumore. Lo stesso con i Fiori: se sono troppi, non si produce l’effetto desiderato». Occorre, dunque, procedere con metodo, assumendoli più volte al giorno, di modo che si manifestino nel paziente e il terapeuta capisca ciò di cui il soggetto in cura ha bisogno per produrre in lui o lei gli effetti di guarigione.
«Reiki» vuol dire energia. Marina Cabella, matematica, è reikimaster. «Noi siamo energia – spiega – il nostro campo magnetico è immerso nell’energia universale. Il Reiki mette in collegamento l’energia universale con l’energia del nostro corpo vitale». Ricorda come ha conosciuto il reiki: «per caso – dice – durante una gita. Un’amica lo praticava, mi ha detto di fidarmi. Mi sono fidata». Il Reiki ha radici molto antiche e richiede un percorso di autoconsapevolezza, suddiviso in tre gradi o livelli. Fu Mikao Usui (1865-1926) a riscoprirlo, traendo ispirazione da testi dell’antico Giappone e da lunghe meditazioni e prove. Da Usui, primo maestro di Reiki, sorse la scuola di Reiki. «Nel Reiki, l’operatore – spiega Marina Cabella – si connette con l’energia di guarigione e la canalizza sul soggetto da trattare, riequilibrandolo. È sua la responsabilità di essere un canale pulito di energia, ampio, dotato di buone intenzioni. Il paziente deve affidarsi. Se c’è, da una parte, purezza di intenzioni e dall’altra affidamento, il metodo funziona». Questa energia è disponibile, è abbondante, nell’universo ce n’è per tutti. Il paziente può imparare a servirsene; a – dice – «attivarla». Un reikimaster, per converso, ha appreso ad agire «sul piano spirituale»; conosce e opera sui «livelli più sottili». È in grado di «attivare altri».
Maria Cicconetti e Gino A. Torchio hanno raccontato il percorso che li ha condotti a collaborare alla scrittura del libro Mani che curano. La pranoterapia nella mia vita (Serel | Stefano Termanini Editore). «Debbo confessarvi che ero scettico» dice Gino A. Torchio. «In quanto medico di medicina generale mi sono sempre occupato della salute degli organi. E benché credessi che ci sono cose che non si vedono e che sono, ciò nonostante, molto importanti e influenti, non credevo che la pranoterapia avesse efficacia. Oggi abbiamo parlato di energia. L’energia è dovunque. Il cosmo contiene una grande quantità di energia che noi non vediamo e che non riusciamo, almeno non ancora, a misurare strumentalmente. Sappiamo, però, che c’è. Avvicinandomi alla pranoterapia, seguendo Maria nel suo lavoro per circa due anni, mi sono convinto, e ora sono convinto, che bisogna non essere scettici dinanzi alle cose che non vediamo soltanto perché non le vediamo». Racconta delle volte in cui i pazienti tornavano al suo ambulatorio medico e gli riferivano di essere stati dal pranoterapeuta e di averne tratto benefici. Avevano, così riferivano, meno dolore. «Un po’ e sulle prime mi dava fastidio – rivela, sorridendo di quella sua passata gelosia – ma, come anche la scienza prescrive: quando tutti riferiscono di un fenomeno come funzionante, non si può fare a meno di prestargli attenzione».
Le mani di Maria Cicconetti, durante il trattamento pranoterapeutico, si scaldano. «Maria lo chiama ‘dono’ – commenta Gino A. Torchio – ma forse dono non è, perché l’energia c’è ed è attorno a noi. La pranoterapia è terapia non invasiva, intesa a recuperare il benessere del paziente. E non è poco! D’altra parte, che Maria, attraverso le sue mani, produca un beneficio nel paziente io l’ho visto accadere molte volte. È verificabile. La medicina ‘tradizionale’ sta facendo grandi passi di avvicinamento in direzione della medicina complementare. Ci sono medici, per esempio ortopedici, che prescrivono ai propri pazienti trattamenti pranoterapeutici e il pranoterapeuta, in casi sempre meno singolari, entra a far parte di un team di cura. Oggi consideriamo questa disciplina una cosa a cui ‘credere’ o ‘non credere’. Un giorno arriveremo a misurare scientificamente ciò di cui abbiamo una conoscenza empirica».
Aggiunge Maria Cicconetti: «Impongo le mani sul paziente, si scaldano. Lo faccio senza preparazione, come si è raccontato nel libro. È un dono». E ricorda, poi, come sul “dono” ci abbia a lungo lavorato: prima imparando a dominarlo, sotto la guida di un frate cappuccino (è il padre Nino de La foto che non c’è), quindi studiando. «Da quindici anni collaboro con un medico ortopedico. So quanto il mio ruolo niente possa togliere al ruolo della medicina scientifica e tradizionale, ma so anche che possiamo lavorare insieme, con molta utilità e profitto per il paziente».
Prima delle domande libere e degli interventi del pubblico, a conclusione della “giornata”, è intervenuto Stefano Termanini: «ho notato – ha detto – che un tratto comune a tutti gli interventi sia stato l’equilibrio tra l’esperienza diretta, empirica, a cui dover credere e la volontà, la necessità, a un certo punto, di trovare basi oggettive e scientifiche a giustificazione del proprio lavoro e degli effetti che se ne ottengono. Nella medicina complementare, a quanto oggi ho appreso, si cerca una dimensione complessiva dell’essere umano, una connessione tra il pensiero (o lo spirito, se si vuole) e il corpo, tra il sentire e lo stare. L’energia è, mi pare, la connessione che in tutti gli interventi è stata riconosciuta come a fondamento della conservazione della salute e del benessere, obiettivo che mi pare più di ogni altro al centro del bersaglio. La vera sfida». Riferisce un aneddoto: «È forse una leggenda, ma pare che il nome commerciale di Aspirina derivi da Sant’Aspreno, primo vescovo di Napoli, che tradizionalmente si invocava per guarire dal mal di testa (1). Se così fosse e anche qui, anche in questa leggenda o aneddoto che sia, il benessere del corpo e lo spirito sarebbero fra loro legati». «Sono contento della giornata, splendidamente organizzata da Nicole Freddi, che ringrazio», ha infine concluso. «Vorremmo ripetere questa giornata, anzi farla diventare un appuntamento non estemporaneo e occasionale, ma da mettere in calendario, abituale, ripetuto. Vorremmo ampliare l’esperimento che oggi abbiamo fatto insieme e trasformarlo, se ci riusciremo, un un festival del benessere. O meglio, come lo abbiamo chiamato, perché l’accezione del benessere sia la più vasta possibile: del ‘bene-stare’». [s.t. 26.5.2022]