Se questo è un uomo

Il fatto

Non parteggio per nessuno. Non voglio preconcetti, li evito. Il giusto non l’ho in tasca, anche se mi sforzo di non sedergli lontano. Non sono putiniano, ma ammiro la cultura e certo ho amato e amo la letteratura russa. Sono stato in America e vi ho conosciuto gente semplice e buona, grandi lavoratori, uomini e donne fedeli e generosi. Mi hanno detto: “vieni anche tu. C’è spazio”. Ma io sono rimasto qui. L’Europa, da duemila anni, forse di più, è casa mia.

La guerra è la guerra, non l’igiene del mondo, ma la sospensione della legge della felicità e lo sprezzo della vita. Non vogliamo ricaderci come già cento, mille, diecimila volte. Non vogliamo la propaganda che la trasforma, da indicibile e inaccettabile, a scelta di campo e contigua fatalità.

Pochi giorni fa, al Tg1 delle 20, quello davanti cui siedono la metà forse delle famiglie italiane, è stata mostrata la morte in diretta. La morte prodotta col telecomando: come in un videogioco, un drone, controllato via computer, bombarda una trincea russa e (forse) uccide i soldati che la occupano. L’hanno fatto vedere. In tv. Nel primo canale che trasmette Domenica In e Quark, dove si parla dell’Italia Verde e Azzurra, dove si mostra urbi et orbi il Papa benedicente, ogni Natale e Pasqua. Ormai è normale – forti della consapevolezza che questa è una guerra giusta e che “noi siamo i buoni” – far vedere l’ucraino che uccide il russo per lo spettacolo delle buone famiglie italiane. Come un gladiatore contro la belva feroce, in tempi non animalisti.

Non sono insorte le anime belle. Ha taciuto l’Ordine dei Giornalisti. Io voglio dire, invece, se il soldato russo è un uomo, pensiamoci: c’è giustizia in chi fa vedere l’uccisione elettronica, videoludica, pret-à-porter, di un uomo? Se quello è un uomo, mandato dal suo ingiusto potere al fronte, e vale quanto te e quanto me, e tu lo fai uccidere (o lo vedi morire), per la sazietà spettatoria delle famiglie italiane, che dignità ti resta da difendere, per che cosa scendi in campo? Se è un uomo, quello che hai visto nella rappresentazione sfocata dello schermo e la sua e la tua vita è ormai un videogioco; se è un uomo, questo, che hai ucciso nell’abbruttimento della propaganda, come potremo pensare, oggi, domani, di insegnare ai nostri figli il valore della vita che dice il rispetto, la felicità, la cultura, la civiltà?

Lo spettacolo

Al Tg1 la bella inviata speciale, scarmigliati i biondi capelli al gelido vento dell’Est, parla con concitazione. Nel microfono, impugnato come il bastone del conte-duca d’Olivares, scandisce «più armi, più armi. Ci hanno detto che hanno bisogno di armi. Di più armi. Tutti ci ripetono la stessa cosa». Lampi alle sue spalle, missili, bombe, azioni di contraerea. L’Occidente deve essere compatto, lei dice, e chi sia il nemico è chiaro: «Più armi, più armi, per l’Occidente, per la libertà, per la democrazia, per la giustizia».

L’obiettivo gira, inquadra un carro armato. «È russo», spiega con soddisfazione il soldato ucraino. «L’abbiamo preso ai russi e ora lo usiamo contro di loro». Sorride, sornione, si compiace del successo. Hanno tolto alla tartaruga il suo guscio, al granchio le chele, all’uovo il tuorlo. «E i soldati russi che c’erano dentro?» «Non sono morti», si affretta l’ucraino in mimetica. Batte la mano sul cingolo, come sulla groppa di un lucido puledro. E pare volerci dire, suggerito dall’inviata speciale: la guerra non è poi così cattiva, se è fatta dai buoni. Non lo è così come la facciamo noi. Ci sono pur sempre pietà e regole nella nostra guerra. Noi combattiamo per la libertà, la democrazia e la giustizia; noi non scanniamo, noi non smembriamo. Noi conquistiamo e graziamo. Non è un ammazzatoio la guerra, se è fatta da noi. Da questa parte del reticolato, i despoti non ci sono più – e da molto molto tempo. Siamo tutti uguali quassù, quaggiù, qua-a-ovest. E state tranquilli che i soldati russi sono ora, come una tartaruga sgusciata, tra i due guanciali di un ospedale o sulle brande di un campo di redenzionamento e al caldo cantano di gratitudine e sorbiscono la loro buona minestra occidentale.

Una sorpresa ci attende. Non è ancora finita. La notte piena di lampi ha fatto spazio a un giorno crepuscolare e si va, dentro le jeep: «Ora vi facciamo vedere il quartier generale. Da qui si controllano tutte le operazioni». Scosta una tenda, entra in una sala giochi per soldati in mimetica, ed è buio intermittente per via degli schermi. Schiacciano pulsanti, i soldati in uniforme da campo, la testa cuspidata in un berretto di lana ogivale. La sala giochi della guerra: lei, la bella inviata speciale, ha messo occhiali da diva, alza la mano al volto, le unghie rosee e curate. E guarda. E ci fa guardare dentro gli schermi: è qui la guerra, giocata a colpi di joystick. «Sono i droni», spiega il soldato (si sente la voce ucraina sotto, tradotta per noi da un baritonale doppiatore pronipote di Cinecittà). «Qui la guerra la facciamo con i droni. Vedete laggiù? È una trincea russa. Il nemico lo vediamo e gli spariamo». Fuoco! Spara e colpisce, la macchia grigia annidata fra gli alberi diventa nera. È il missile, il suo impatto al suolo. Una striscia di fumo tra gli alberi, sulla neve. «Lo hanno preso?», domanda lei, ingenua e sorpresa. Ma sì, “preso”, lo hanno preso. Come il piattello al tiro al piattello, come la volpe il giorno della caccia alla volpe, come il tirasegno il pomeriggio del sabato, ai baracconi: se lo prendi, vinci. Picchia il pugno sul tavolo, piccoli, fitti pugni sul tavolo, il soldato ucraino tirocinato nella tramontante Abendland. Una mano colpisce l’altra. Dal pugno al palmo: è la sua soddisfazione che esplode, si esprime e si contiene. «Li abbiamo colpiti nelle trincee, c’è anche un blindato», dice. Noi siamo qui che guardiamo, attavolati, raccolti in famiglia, quieti della nostra buona coscienza. Noi lo sappiamo che vorremmo che il male scomparisse dalla faccia della Terra. Noi siamo i buoni, non è così? E allora, ve lo dico: siamo disposti a uccidere, noi, a fare a pezzi, purché il male sia sconfitto. A rincendiare Campo de’ Fiori. Irroghiamo e non deroghiamo: al rogo streghe, stregoni, despoti e irenisti! Sia dannato chi dubita della nostra nonviolenza! Sei hai paura, se ti fermi, se dirai “considerate se questo è un uomo”, tu sarai nemico tanto quanto il nemico che ascolta. Noi, che siamo i buoni, pur di sconfiggere il male, ci sacrificheremo sopraggiacendo a ogni malefatta. Dente per dente, occhio per occhio, missile per missile, tutto per tutto. Basta che sia finita, che sia la fine. Del male. Abbia la forma di quell’ombra sulla neve o di un carrarmato: noi ce la faremo. Noi siamo i buoni: non sei convinto che noi lo siamo?

Stacco. Vediamo la stanza, il volto, di nuovo la stanza. Il fondo che non sappiamo se è muro o tenda, piena degli occidentali strumenti del videogame della guerra. «Non sappiamo se sono vivi o morti», dice l’ucraino e il dubbio basti alla nostra coscienza, se ancora ci prudesse. Li vediamo nello schermo che inquadra lo schermo e, dopotutto, per annientare il male, occorre annientare chi lo fa – così va la vita! «Quando gli spariamo i russi corrono molto veloci. Anche noi corriamo veloci quando ci sparano. Tutti vogliamo vivere». [stefano termanini | 20.2.2023]

#unlibroindonoperundonocontroilcoronavirus

[Comunicato Stampa]

Leggere (o ascoltare) e donare: gli autori Maria Cicconetti e Dino Frambati scendono in campo a sostegno di due raccolte fondi contro il coronavirus, a vantaggio degli Ospedali Civico di Chivasso e Galliera di Genova

[21 marzo 2020] – Un libro in dono per un dono contro il coronavirus (#unlibroindonoperundonocontroilcoronavirus): è questo il nome di un’iniziativa culturale a sostegno di raccolte fondi di provata serietà, per dare un contributo agli sforzi di contenimento e cura dell’epidemia da coronavirus in atto presso gli Ospedali di Chivasso e Genova. L’ha lanciata ieri su facebook e sulle pagine del proprio sito la casa editrice genovese Stefano Termanini Editore (www.stefanotermaninieditore.it). Due i fronti: l’Ospedale Civico di Chivasso, centro di emergenza per la lotta contro il coronavirus, per il quale si raccolgono fondi in collaborazione con Lilt Torino, la sua presidente Donatella Tubino, il Consiglio Direttivo Provinciale Torino, le Delegazioni e tutti i volontari, e l’Ospedale Galliera di Genova.

Per Chivasso il libro “donato” è il romanzo-autobiografia di Maria Cicconetti La foto che non c’è (Serel International/Stefano Termanini Editore), ora in versione podcast/audiolibro. Libro – come si spiega nella pagina dedicata all’iniziativa, ieri lanciata con successo su facebook – «intenso, forte, ricco di speranza», offerto ai lettori della casa editrice e a tutti per tenere loro compagnia durante questi giorni incerti, difficili e dolorosi, a causa dell’emergenza coronavirus.

Per Genova e il suo Ospedale Galliera il libro offerto in dono ai lettori è Il virus e il direttore di Dino Frambati, diario «dal fronte del coronavirus», che Dino Frambati ha voluto scrivere appositamente per l’iniziativa Un libro in dono per un dono contro il coronavirus, prestando anche la sua voce per l’edizione in podcast/audiolibro. La pubblicazione, “donata” al lettore in cambio di un suo libero dono, va a vantaggio di una raccolta fondi già attiva su GoFundMe.

Mentre il coronavirus ci impone di rimanere a casa – si dice nelle pagine che la casa editrice dedica all’iniziativa – un libro può esserci di conforto. Ascoltarlo è un altro modo di leggerlo. Può – così si vorrebbe – essere rilassante in tempi molto tesi, ovvero meno impegnativo, eppure mai banale, in settimane e giorni che, come questi, sono affollati di preoccupazioni e pensieri.

Nel suo La foto che non c’è, Maria Cicconetti, chivassese, antropopranoterapeuta, ha raccontato una storia segnata di tappe amare, ma una storia alla resa dei conti positiva, in cui trionfano, nonostante molti e ardui ostacoli, la voglia di vivere e la capacità di perdonare. Alla fine della storia narrata nel libro Maria Cicconetti, protagonista e autrice, giunge a scoprirsi dotata del “prana”, la forza di curare con le mani, tema questo a cui ha dedicato Mani che curano, un nuovo libro, di prossima e imminente pubblicazione, scritto in collaborazione con il medico-scrittore Gino A. Torchio.

Dino Frambati, genovese, consigliere nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e per diciassette anni vicepresidente dell’Ordine dei Giornalisti ligure, opinionista, editorialista, conduttore di trasmissioni, recente autore di un libro dedicato alle buone notizie, Quando la notizia è buona (Stefano Termanini Editore), scrive il suo “diario”, Il virus e il direttore, con lo stile vivace del cronista. Il lettore è posto dinanzi al dramma della pandemia, quale fatto epocale e sconvolgente. Non mancano rilievi quotidiani e particolari, poiché – come Dino Frambati ci dice – il coronavirus ugualmente dirompe: nel grande delle relazioni fra i Paesi e le Borse e nel piccolo dei nostri affetti e della nostra vita quotidiana. Il coronavirus, che ci fa paura, ci mette in crisi: ci obbliga a una revisione di noi stessi, ci chiede di “ripensarci”.

L’iniziativa #unlibroindonoperundonocontroilcoronavirus ha raccolto un immediato apprezzamento anche sulle pagine di facebook, ove è stata lanciata. «Quella dell’Editore Stefano Termanini di Genova per gli ospedali in crisi (compreso il nostro di Chivasso) è un’iniziativa meravigliosa» scrive Gino A. Torchio, medico-chirurgo pneumologo, già attivo presso gli Ospedali San Luigi Gonzaga di Orbassano e Civico di Chivasso. «Aiutiamolo insieme alla Dottoressa Tubino», invita il dottor Torchio. «Lavoro da anni all’Ospedale di Chivasso», scrive Nicola Vinassa, medico ortopedico, che dà la propria testimonianza in presa diretta, «qui ora siamo tutti ora impegnati ad assistere con umanità e competenza i malati che arrivano sempre più numerosi. Tutto il personale sta mettendo ogni forza per superare la crisi e darci una nuova speranza. Purtroppo, non ci bastano più gli strumenti che abbiamo, nonostante gli sforzi delle istituzioni». E quindi, chiude, ribadendo l’invito a donare: «Diamo allora ognuno un contributo: bastano tante piccole gocce per formare un mare. Grazie»./

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Preferiamo le buone notizie!

“Ma perché deve essere così? Me lo spiegate?”

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