«Ùter!» di Claudio Gava al Museo Biblioteca dell’Attore | 15 giugno 2023

Giovedì 15 giugno, alle ore 17,30, presso il Museo Biblioteca dell’Attore (via del Seminario 10 – Genova) verrà presentato il libro di Claudio Gava, «Ùter!»,Serel | Stefano Termanini Editore, 2022, ISBN 9788889401415.

Interverranno, dopo l’introduzione e il saluto di Eugenio Pallestrini, presidente del Museo Biblioteca dell’Attore, i professori Giancarlo Andrioli, Roberto Cuppone e Roberto Trovato. Letture di passi scelti del libro sono a cura di Giacomo Gava. Saranno presenti e interverranno l’autore Claudio Gava e l’editore Stefano Termanini. L’ingresso è libero.

Il libro di Claudio Gava è intenso e divertente al tempo stesso. Si comincia da un’idea: una volta, e più nei centri minori del nostro Paese, oltre alla lingua, si parlava il dialetto. A differenza della lingua, il dialetto aveva una presa immediata sulle cose. Diceva le cose nella loro verità. Quando, nell’arco di una-due generazioni, il dialetto si è perso, perché, magari, ci pareva che parlarlo “stesse male”, si è perduta anche una capacità di incidere sulle cose che il dialetto aveva in sé. Che conservava. E che garantiva.

Claudio Gava è nato a Vittorio Veneto, vive a Sernaglia della Battaglia, lavora a Trento. Il “suo” dialetto – quello di cui nel libro ci parla – è il dialetto veneto-trevigiano. Lui scrive, anzi, che è il dialetto di una frazione di Vittorio Veneto e di quella soltanto: Serravalle. La storia di Ùter!, però, per virtù della sua scrittura, è una storia non locale, ma italiana. Perché in ogni parte d’Italia è accaduto lo stesso che in Veneto: che, cioè, in un paio di generazioni appena la lingua si è appiattita, ha perso di verità, è diventata quella della televisione, azzoppata, perdipiù, dal vezzo (certo eccessivo) dell’anglomania.

«Ho sempre pensato – dice Claudio Gava – che la conoscenza del dialetto, così come quella delle lingue straniere, sia un po’ come saper leggere la musica. Se non la sai leggere, perdi una parte di mondo, hai una sensibilità più limitata. Non sei migliore o peggiore: sei diverso. Il libro si divide in due parti. La prima è più brillante e divertente e forse porta con sé anche un elemento di speranza, di piacevolezza nell’offrire storie legate a detti e modi di esprimersi. La seconda è un corpus di poesie, tutte in dialetto. Quest’ultima contiene una nota più malinconica e, rispetto all’altra, è forse più priva di speranza».

«Ùter! di Claudio Gava – dice Stefano Termanini, editore – che oggi cercheremo di raccontare come una storia italiana e universale, in tante saporose pagine ci racconta quelli che eravamo una cinquantina di anni fa appena. Regioni intere del nostro Paese erano a economia ancora prevalentemente agricola e, prima della scoperta commerciale dei prodotti tipici, delle dop e dei doc, dei disciplinari del pesto e della focaccia, del turismo culturale ed enogastronomico, del parmigiano reggiano, del prosecco, non sempre la vita era facile e allegra. Claudio Gava ci racconta quel mondo abbastanza vicino da averne potuto conoscere l’estremo lembo, eppure ormai lontano. Ce lo racconta per mezzo delle parole. Ci dice, spiegandoci, in modo sempre divertente, una storia via l’altra, quali fossero le parole che usavamo. Narra quel patrimonio di immediatezza e di idee che, perdendo le nostre parole più antiche e autentiche, abbiamo perduto».

Ùter! di Claudio Gava si trova in libreria e qui: https://bit.ly/3wk5Xyq

(ecco come si è svolta la presentazione, qui integralmente ripresa)

Un destino che era scritto dove è stato cancellato

Parlando di Empedocle, ad Agrigento

«Che succederà?». Glielo chiesi con apprensione, come se dovesse essere per domani. «Non si sa», mi rispose, ma sembrava impensierito, pericolante. «Non si sa, è perduta la parte in cui c’era scritto». Me lo disse non come se sapesse che era perduta da duemilacinquecento anni, ma come se fosse una scoperta di ora; come se ancora bruciasse.

«Quale delle due, però? Quale prevarrà». Lo incalzavo, attorno alla tavola quadrata, io su un lato, lui all’estremità, mentre dalla finestra, colore della sabbia, splendeva il Tempio della Concordia. Mi disse che credeva che sarebbe stato il turno di Neikos. Ovunque ce n’erano, di segnali. «Non Philia irreprensibile, non il suo benevolo e immortale slancio, ma la separatrice inimicizia di Neikos…».

Recitava, pareva che recitasse l’augusto professore, ai cui occhi Empedocle era presente. Ne parlavamo come se dovesse dirci il tempo che avrebbe fatto domani, se sul frontone della Concordia avremmo visto piovere o se ci avrebbe inondati il fiorire dei mandorli. Si chiuderà su se stesso l’Universo, conteso dai suoi due principi e sarà Philia oppure Neikos – non si sa –, Amore o Odio, Composizione e Unione, oppure Divisione e Morte.

Non si sa. Come un sacco, come una sporta, si sarebbe chiuso l’Universo, come una sella di cavallo, come una sfera, con dentro la Terra, il Sole, tutte le stelle, la Via Lattea, due o tre milioni di galassie, forse di più. L’avrebbe chiuso nel sacco Neikos – così aveva visto e così aveva scritto. «Ma ebbe paura, forse – disse ancora il professore – e poi cancellò».

Bevve un lungo sorso di vino, la notte era fresca. Luminosa era la Luna allo zenit del Tempio della Concordia. «Tolse quelle parole, tolse il finale». Un cameriere socchiuse la finestra, scostò l’ampio cristallo, dalla campagna entrò il frinire dei grilli. «Non volle che si sapesse, preferì non dirlo».

Era l’ora di ordinare il dessert, stava finendo la sera, giungeva la notte. «Empedocle aveva scritto che non nascita e morte, ma mescolanza e separazione sarebbero stati i nomi giusti da dare alle cose. Non aveva paura. Non c’era morte, né corruzione, né niente mai che finisse: né per gli uomini, i singoli, né per il cielo e la Terra, né per il cosmo intero. Sapeva che la paura ce l’avevano gli altri: i suoi simili, gli uomini. Tutti gli altri uomini, i suoi concittadini. Preferì non dire niente. Non a Philia, ma a Neikos toccherà il passo di danza estremo. E poi sarà la separazione. L’Universo è condannato a morire».

Guardavo nel piatto. Posai la forchetta di lato. Il pranzo era finito e uscimmo sulla terrazza. Il professore fumava un sigaro odoroso e la Luna era sparita dietro il pronao della Concordia. Giù in fondo, dietro gli ulivi, mi pareva di indovinare il mare. Era tutto così fresco e profumato e bello, così ordinato, come nell’acquerello di un pittore romantico inglese. Eppure, dopo che ci eravamo addentrati a quel modo nei versi di Empedocle, tutto ci pareva fragile. Cento miliardi? No, tanto di più. Mille miliardi o forse un milione di miliardi di anni (un miliardo di miliardi di anni?)… a mente facevo il conto. E tanto quanto mi era parso che Empedocle avesse scritto ieri o soltanto stamattina, ora, datoci il suo funesto verdetto, il tanto, il tutto mi pareva comunque poco. Ora che avevo inteso che era destinato a “separarsi”; a finire. [stefano.termanini@gmail.com | 26.5.2023]

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La verità è rotonda. E rotondo è il mondo

una passeggiata sulle tracce di Parmenide

A Elea sono giunto passando per la Porta Rosa. Ho fatto la breve salita che conduce all’arco massiccio. L’ho attraversato, pensando che, forse, anche Parmenide – e chissà quante volte – ci era passato in mezzo e poi sono salito su, fino all’acropoli, al fortilizio di Castelluccio.

Il cielo era quello alto di aprile – un cielo languido e stinto – e dal Castelluccio, guardavo la costa sabbiosa e poi alta, verso nord, le case di vacanza tutte chiuse e spente, le spiagge vuote e il mare, azzurro e ancora opaco, per via della luce poco primaverile. Qui gli ulivi sono grandi e alti, da sembrare querce. Sono risceso, ripassando dalla Porta, sulla strada che ha duemilacinquecento anni e, facendo questa via, su queste pietre, ho avuto il privilegio – era il 2011 – di accompagnare Giovanni Reale. Maggiore sarebbe stato soltanto il privilegio di accompagnare Parmenide stesso, poeta-filosofo, o Zenone o Melisso, che di lui erano stati seguaci e discepoli.

Diogene Laerzio di Parmenide scriveva che era stato allievo di Senofane, ma questo probabilmente non fu, e che comunque non lo seguì. Scriveva che aveva riconosciuto quale maestro Aminia, il pitagorico, e che gli aveva fatto erigere a proprie spese una tomba che pareva un piccolo tempio, quando Aminia morì. Aminia era povero, ma era uomo eccellente. Parmenide (ca 540 a.C-450 a.C.), allora un giovane che si preparava a essere eccellente, era ricco, di «stirpe illustre». Si dedicò alla filosofia. «Per primo – affermava ancora Diogene – [Parmenide] dimostrò che la terra è sferica, che è situata nel centro, che esistono due principi, il fuoco e la terra, e che il primo ha funzione di demiurgo, la seconda di materia».

Empedocle l’agrigentino, di cui abbiamo già detto qualcosa, di Parmenide fu discepolo e successore (Suda) e, infatti, di Parmenide ritroviamo in Empedocle la teoria dei due principi, che Empedocle chiamava Neikos e Philia, Odio e Amore (17DK).

«Le cavalle che mi portano – scriveva Parmenide e la sua era poesia filosofica – secondo lo slancio della mia volontà, mi inviarono […] alla via dispensatrice di molte conoscenze». Sulla via della verità lo avevano condotto, tirandolo come su un cocchio, magiche cavalle. Il pensiero gli si era dischiuso davanti agli occhi: una porta apertasi «per le strade del Giorno e della Notte». Qui l’aveva accolto una dea. Gli diceva: «è necessario che tu apprenda tutto, tanto il cuore immobile della Verità rotonda, quanto le opinioni dei mortali, in cui non si trova verace certezza» (fr 1-2).

La verità è “rotonda”, per Parmenide, a forma di sfera, così come a forma di sfera è il mondo e l’essere. La dea gli dice che l’essere e il pensiero sono una stessa cosa; che «identico è il pensare e l’esistere» (fr 3). Ecco la verità. Se ci sia, qui dentro, l’idea che anche il mondo abbia forma di sfera è difficile dire con certezza, ma per la bellezza della sua scrittura e per il fascino e l’intuizione dei suoi frammenti, gli interpreti hanno visto nel pensiero di Parmenide un’incredibile e precoce profondità.

Parmenide, testimoniava di lui Plutarco, «ha raffigurato un sistema cosmico e mediante la mescolanza di luce e tenebra quali elementi, da questi e per mezzo di questi, rende ragione di tutti i fenomeni. Infatti ha trattato ampiamente della terra e del cielo e del sole e della luna e degli astri e ha esposto la generazione degli uomini».

Lo fece da lassù, guardando l’ampio orizzonte che oggi è di Ascea-Velia, dalla collina dell’acropoli, con il mare che sembra incurvarsi e il cielo che gli aderisce. [s.t. 22.5.2023]

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I nostri più recenti libri di poesia sono qui. Vieni a visitarci:

– Rita Parodi Pizzorno, Le Antiche Mura ([open access] https://bit.ly/3F92TaB )

– Paolo Castagnola, Tra le parole e il sale (https://bit.ly/3yRb0b0)

– Antonietta Bocciardo, Or si frange l’onda (https://bit.ly/AntoniettaBocciardo_orsifrangelonda)