Stefano Termanini ha dedicato il suo “Una nave ormeggiata in Valpolcevera”. Tre anni di storia e di lavoro dal Morandi al ponte Genova San Giorgio, primo tomo dei due che compongono il volume “Una nave ormeggiata in Valpolcevera, scritto con Alessandra Lancellotti, autrice di Mille voci, mille volti. Testimoni del dolore, del tempo, d’impresa, fotografie di Roberto Orlando, in particolare, ai “43 angeli della città”.
La formula fu coniata dal card. arcivescovo Angelo Bagnasco, nel corso della celebrazione del primo anno dalla tragedia.
I “43 angeli della città” sono le vittime innocenti le cui vite il crollo del ponte Morandi ha trascinato con sé. A ciascuna delle 43 vittime, nel capitolo 3 del libro, è stato dedicato uno spazio, per ricordarle e onorarle – nell’immenso dolore – nella bellezza della loro vita e nel dramma della loro morte. E per non dimenticare che ogni cittadino italiano ha il dovere di lottare perché le vittime del Morandi e le loro famiglie abbiano giustizia – e perché, cercandola per loro, ogni cittadino italiano lotterà perché il proprio Paese sia un paese giusto.
Qui il Lettore trova il podcast gratuito in cui l’autore legge il terzo capitolo di “Una nave ormeggiata in Valpolcevera”. Lo pubblichiamo oggi, 14 giugno 2022, a 1400 giorni dalla tragedia:
Nicole Freddi, garante per i disabili del Comune di Casale Monferrato, ha organizzato la prima “Giornata del Benessere”
Lo scorso 15 maggio, presso i locali del complesso del ristorante La Torre, in via Candiani d’Olivola a Casale Monferrato, si è tenuta la prima edizione delle “giornate del benessere”, a cura di Nicole Freddi, esperta di aromaterapia e garante per i disabili del Comune di Casale Monferrato. «Esplorando i sentieri del benessere» è il titolo che Nicole Freddi ha scelto per questa prima “giornata”, che ha visto succedersi interventi di Paola Fongi, floriterapeuta, Alessandra Crova, farmacista, esperta in fitoterapia e floriterapeuta, Marina Cabella, reikimaster, Maria Cicconetti, pranoteraputa, autrice con Gino A. Torchio, medico e scrittore, di Mani che curano. La pranoterapia nella mia vita (Stefano Termanini Editore).
«Era normale per gli antichi – ha detto Paola Fongi – cercare nella natura la cura delle malattie. La naturopatia è, perciò, disciplina originaria e molto antica, che entra nell’ombra quando la scienza diventa il solo strumento di interpretazione dell’universo e del mondo. È soltanto nel Novecento che si riscopre l’energia come il fluido che dà forma all’universo. Il rapporto tra noi e le cose viene, di conseguenza, rivisto. Noi siamo una rete di relazioni con scambio di energia. Se ci pensiamo dentro un sistema così fatto, cambiano la nostra posizione e la nostra responsabilità nei confronti del cosmo: ritroviamo l’idea della natura che cura». Paola Fongi è esperta di fiori di Bach, che – spiega – sono «mediatori di un’energia». L’energia ha un’efficacia nel contribuire al benessere degli esseri viventi quando sia canalizzata con intenzione. «Occorre essere consapevoli e responsabili: di ciò che si fa e di ciò che si riceve», aggiunge. Noi non siamo un insieme di “pezzi”: la persona va curata nel suo insieme. Fa un esempio: «Non possiamo pensare che un male al gomito sia soltanto un male al gomito». Ogni “disagio” produce un “disturbo”; ogni disturbo va compreso in quanto effetto di un disagio, sul quale intervenire con la cura.
Alessandra Crova, oltre a essere farmacista, è consulente in Fiori di Bach secondo il metodo tradizionale. Comincia il suo intervento presentando la figura di Edward Bach (1886-1936). Bach disse che «la salute è essere in armonia con la propria anima e che ogni squilibrio è potenziale causa di malattia». D’altra parte, «non tutte le persone sviluppano una malattia benché esposte allo stesso patogeno». Da quando, nel 1936, fu dimostrato che gli agenti stressogeni contribuiscono all’atrofia del timo e, dunque, al crollo del sistema immunitario (Alessandra Crova cita l’endocrinologo Hans Selye), l’intuizione del dottor Bach, secondo cui «salute è un’armoniosa unione di corpo, mente e anima» ha la sua base scientifica. I Fiori che prendono il suo nome sono «38: 37 dei quali sono tinture madri e uno è acqua di fonte». Devono essere assunti consapevolmente – spiega – nel senso che occorre capire la logica che sottendono e che è integrale: si vuole «prendere in considerazione la persona nel suo intero». Peraltro, i Fiori di Bach sono «compatibili con ogni forma di trattamento, vanno bene a ogni età, non hanno effetti collaterali». L’idea è «agire sugli stati energetici» e stimolare «il potenziale di autoguarigione» del soggetto in cura. Diceva Bach di considerare «privilegio e dovere di ogni medico imparare a guarire sé stesso» e che la guarigione deve venire «da dentro noi stessi». Alessandra Crova conclude facendo ricorso a un’immagine: «I Fiori sono come un’onda sonora. Bisogna dosarli opportunamente. Se mescolo troppi suoni insieme, non sento armonia, ma rumore. Lo stesso con i Fiori: se sono troppi, non si produce l’effetto desiderato». Occorre, dunque, procedere con metodo, assumendoli più volte al giorno, di modo che si manifestino nel paziente e il terapeuta capisca ciò di cui il soggetto in cura ha bisogno per produrre in lui o lei gli effetti di guarigione.
«Reiki» vuol dire energia. Marina Cabella, matematica, è reikimaster. «Noi siamo energia – spiega – il nostro campo magnetico è immerso nell’energia universale. Il Reiki mette in collegamento l’energia universale con l’energia del nostro corpo vitale». Ricorda come ha conosciuto il reiki: «per caso – dice – durante una gita. Un’amica lo praticava, mi ha detto di fidarmi. Mi sono fidata». Il Reiki ha radici molto antiche e richiede un percorso di autoconsapevolezza, suddiviso in tre gradi o livelli. Fu Mikao Usui (1865-1926) a riscoprirlo, traendo ispirazione da testi dell’antico Giappone e da lunghe meditazioni e prove. Da Usui, primo maestro di Reiki, sorse la scuola di Reiki. «Nel Reiki, l’operatore – spiega Marina Cabella – si connette con l’energia di guarigione e la canalizza sul soggetto da trattare, riequilibrandolo. È sua la responsabilità di essere un canale pulito di energia, ampio, dotato di buone intenzioni. Il paziente deve affidarsi. Se c’è, da una parte, purezza di intenzioni e dall’altra affidamento, il metodo funziona». Questa energia è disponibile, è abbondante, nell’universo ce n’è per tutti. Il paziente può imparare a servirsene; a – dice – «attivarla». Un reikimaster, per converso, ha appreso ad agire «sul piano spirituale»; conosce e opera sui «livelli più sottili». È in grado di «attivare altri».
Maria Cicconetti e Gino A. Torchio hanno raccontato il percorso che li ha condotti a collaborare alla scrittura del libro Mani che curano. La pranoterapia nella mia vita (Serel | Stefano Termanini Editore). «Debbo confessarvi che ero scettico» dice Gino A. Torchio. «In quanto medico di medicina generale mi sono sempre occupato della salute degli organi. E benché credessi che ci sono cose che non si vedono e che sono, ciò nonostante, molto importanti e influenti, non credevo che la pranoterapia avesse efficacia. Oggi abbiamo parlato di energia. L’energia è dovunque. Il cosmo contiene una grande quantità di energia che noi non vediamo e che non riusciamo, almeno non ancora, a misurare strumentalmente. Sappiamo, però, che c’è. Avvicinandomi alla pranoterapia, seguendo Maria nel suo lavoro per circa due anni, mi sono convinto, e ora sono convinto, che bisogna non essere scettici dinanzi alle cose che non vediamo soltanto perché non le vediamo». Racconta delle volte in cui i pazienti tornavano al suo ambulatorio medico e gli riferivano di essere stati dal pranoterapeuta e di averne tratto benefici. Avevano, così riferivano, meno dolore. «Un po’ e sulle prime mi dava fastidio – rivela, sorridendo di quella sua passata gelosia – ma, come anche la scienza prescrive: quando tutti riferiscono di un fenomeno come funzionante, non si può fare a meno di prestargli attenzione».
Le mani di Maria Cicconetti, durante il trattamento pranoterapeutico, si scaldano. «Maria lo chiama ‘dono’ – commenta Gino A. Torchio – ma forse dono non è, perché l’energia c’è ed è attorno a noi. La pranoterapia è terapia non invasiva, intesa a recuperare il benessere del paziente. E non è poco! D’altra parte, che Maria, attraverso le sue mani, produca un beneficio nel paziente io l’ho visto accadere molte volte. È verificabile. La medicina ‘tradizionale’ sta facendo grandi passi di avvicinamento in direzione della medicina complementare. Ci sono medici, per esempio ortopedici, che prescrivono ai propri pazienti trattamenti pranoterapeutici e il pranoterapeuta, in casi sempre meno singolari, entra a far parte di un team di cura. Oggi consideriamo questa disciplina una cosa a cui ‘credere’ o ‘non credere’. Un giorno arriveremo a misurare scientificamente ciò di cui abbiamo una conoscenza empirica».
Aggiunge Maria Cicconetti: «Impongo le mani sul paziente, si scaldano. Lo faccio senza preparazione, come si è raccontato nel libro. È un dono». E ricorda, poi, come sul “dono” ci abbia a lungo lavorato: prima imparando a dominarlo, sotto la guida di un frate cappuccino (è il padre Nino de La foto che non c’è), quindi studiando. «Da quindici anni collaboro con un medico ortopedico. So quanto il mio ruolo niente possa togliere al ruolo della medicina scientifica e tradizionale, ma so anche che possiamo lavorare insieme, con molta utilità e profitto per il paziente».
Prima delle domande libere e degli interventi del pubblico, a conclusione della “giornata”, è intervenuto Stefano Termanini: «ho notato – ha detto – che un tratto comune a tutti gli interventi sia stato l’equilibrio tra l’esperienza diretta, empirica, a cui dover credere e la volontà, la necessità, a un certo punto, di trovare basi oggettive e scientifiche a giustificazione del proprio lavoro e degli effetti che se ne ottengono. Nella medicina complementare, a quanto oggi ho appreso, si cerca una dimensione complessiva dell’essere umano, una connessione tra il pensiero (o lo spirito, se si vuole) e il corpo, tra il sentire e lo stare. L’energia è, mi pare, la connessione che in tutti gli interventi è stata riconosciuta come a fondamento della conservazione della salute e del benessere, obiettivo che mi pare più di ogni altro al centro del bersaglio. La vera sfida». Riferisce un aneddoto: «È forse una leggenda, ma pare che il nome commerciale di Aspirina derivi da Sant’Aspreno, primo vescovo di Napoli, che tradizionalmente si invocava per guarire dal mal di testa (1). Se così fosse e anche qui, anche in questa leggenda o aneddoto che sia, il benessere del corpo e lo spirito sarebbero fra loro legati». «Sono contento della giornata, splendidamente organizzata da Nicole Freddi, che ringrazio», ha infine concluso. «Vorremmo ripetere questa giornata, anzi farla diventare un appuntamento non estemporaneo e occasionale, ma da mettere in calendario, abituale, ripetuto. Vorremmo ampliare l’esperimento che oggi abbiamo fatto insieme e trasformarlo, se ci riusciremo, un un festival del benessere. O meglio, come lo abbiamo chiamato, perché l’accezione del benessere sia la più vasta possibile: del ‘bene-stare’». [s.t. 26.5.2022]
(il docufilm prodotto da Stefano Termanini Editore per il libro di Pietro Pistolese e per i 100 anni della Conferenza Economica di Genova)
Il 10 aprile 1922, cento anni fa, si apriva a Genova la Conferenza economica. Si teneva nell’antico e splendido Palazzo San Giorgio, costruito nel 1260 dal capitano del popolo Guglielmo Boccanegra su progetto di frate Oliverio; lo stesso palazzo nelle cui carceri Marco Polo aveva dettato il suo Milione. In veste di giornalisti, giunsero a Genova Pietro Nenni, inviato speciale de «L’Avanti!», Antonio Gramsci, Benito Mussolini, Ernest Hemingway. I delegati che parteciparono alla Conferenza furono in totale 1254, per 34 paesi. Per quaranta giorni, fino al 19 maggio 1922, data in cui la Conferenza si chiuse, Genova fu il palcoscenico delle decisioni del mondo.
Di questo – e molto altro – si racconta nel libro di Pietro Pistolese, In volo su Versailles. La Conferenza di pace un’eredità di conflitti, Stefano Termanini Editore, da appena qualche giorno in libreria. Secondo la tesi del libro, in cui si traccia un quadro storico articolato e vastissimo, la pace di Versailles aveva radici profonde nella storia europea, ma più profonde e complesse sarebbero state le sue conseguenze, la sua (per così dire) “onda lunga”, un’onda di rancori e contrapposizioni che, in meno di un ventennio, avrebbe condotto alla Seconda guerra mondiale e che ancora non si è del tutto esaurita. Fu, infatti, a Versailles che, tra il 18 gennaio e il 28 giugno 1919, furono discusse le condizioni della pace seguita alla prima guerra mondiale, il conflitto che era stato, fino ad allora, il più sanguinoso della storia: l’“inutile strage”, come l’aveva definita papa Benedetto XV, il genovese Giacomo della Chiesa. Mai la storia aveva conosciuto una carneficina di proporzioni simili: la guerra era costata 24milioni di morti e a questi si erano aggiunti, in tutto il mondo, altri 30 milioni di vittime mietute dalla temibile pandemia “Spagnola”, un virus che si diffuse con rapida letalità in un mondo devastato dalla guerra e che – come è stato detto – in sole 24 settimane fece più vittime di quante ne avesse fatte la peste nera in un secolo.
La secentesca e sontuosa reggia di Versailles, voluta dal re “Sole”, Luigi XIV, massimo simbolo della grandeur francese, fu il fondale su cui si misero in luce le personalità di Georges Clemenceau, il volitivo e autoritario presidente della Repubblica francese, così refrattario al compromesso da essersi meritato l’appellativo de “il Tigre”, Thomas Woodrow Wilson, il 28mo presidente degli Stati Uniti, giurista e accademico, già rettore dell’Università di Princeton, celebre per la sua dottrina dei 14 punti, David Lloyd George, primo ministro inglese, avvocato, liberale, aperto e brillante, cui, tra l’altro, alcuni anni più tardi – nel 1921 – si sarebbe dovuto il riconoscimento della libera repubblica di Irlanda, Arthur Balfour, sostenitore della causa sionista, membro di spicco della delegazione britannica. Per l’Italia erano presenti il primo ministro Vittorio Emanuele Orlando e il ministro degli Esteri Sidney Sonnino, liberale, conservatore, meridionalista, di padre italiano ebreo e di madre inglese anglicana. Sonnino fu personalità di spicco e richiese – con ostinazione – che all’Italia si applicassero le clausole del patto di Londra, sottoscritto segretamente nel 1915. Sonnino temeva che la dissoluzione dell’impero austro-ungarico avrebbe condotto allo smembramento dei Balcani e alla loro instabilità. La storia gli avrebbe dato ragione. A Versailles si fece avanti anche William Edward Burghardt Du Bois, studioso e attivista per i diritti dei popoli dell’Africa. Du Bois vagheggiava la nascita di uno stato centrafricano, unendo il Congo belga e le ex colonie tedesche. Le grandi potenze europee, implicate in avventure coloniali che restavano un grande affare, fecero di tutto per non dargli ascolto.
Tra le conseguenze della malfatta pace di Versailles ci furono il crollo dell’economia tedesca e l’iperinflazione della Repubblica di Weimar, il nazismo, il fascismo, l’instabilità dei Paesi balcanici, le aspirazioni e le predazioni colonialiste e, secondo la tesi del libro di Pietro Pistolese, molte delle più recenti e sanguinose contrapposizioni in quei paesi del Caucaso – Armenia e Azerbaigian – che, dopo la Prima guerra mondiale, le potenze vincitrici ritennero di sistemare – così si disse – in “maniera stabile e duratura”. Le conseguenze di Versailles sono come un fiume carsico. Si ritrovano in Medio Oriente così come nei diffusi rigurgiti antisemiti, nelle aree instabili del mondo, nei paesi in via di sviluppo, nelle ex colonie, in quegli stati in cui si vive tuttora imprigionati dalla cortina della guerra fredda e in quelli ove, la guerra diventa – ahimè – calda.
Dopo l’esito insoddisfacente di Versailles, molto ci si attendeva dalla Conferenza economica di Genova. Sarebbe dovuta essere – si diceva – la “panacea di tutti i mali d’Europa”. Prima che a Genova, i grandi decisori del mondo si erano incontrati, nel gennaio 1922 (e, più precisamente, tra il 6 e il 13) a Cannes, dove si era trattato del ripristino dei rapporti diplomatici tra i paesi che erano usciti vincitori dalla prima guerra mondiale e la sconfitta Germania; ma anche dei rapporti diplomatici da tenere con la Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa, che alcuni mesi più tardi, il 30 dicembre 1922, sarebbe diventata Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS). Cannes era finita male: il primo ministro francese Aristide Briand, che aveva accettato di ridurre la somma del risarcimento tedesco, era stato attaccato dai revanscisti e costretto alle dimissioni.
Per l’Italia, a Cannes era presente il primo ministro Ivanoe Bonomi. Fu Bonomi a proporre che la conferenza di Cannes si riaggiornasse in Italia, a Venezia. Venezia non convinceva Lloyd George e Bonomi rilanciò proponendo che sede della nuova conferenza fosse Genova. La conferenza di Genova avrebbe dovuto mettere a posto, “riparare”, ciò che a Versailles non era stato fatto appropriatamente – ciò che era stato fatto in maniera incompiuta o pericolante. A Versailles la politica internazionale aveva vissuto, sul principio, i suoi maggiori entusiasmi. Sul tavolo dei negoziati, il primo punto era stato il nuovo assetto da dare all’Europa – punto che si accompagnava al desiderio di “farla pagare” ai tedeschi e di umiliarli. Seguivano gli altri: il sionismo e i confini orientali dell’Italia erano fra questi. C’erano, poi, il timore che l’ideologia comunista si estendesse in Europa occidentale e i problemi del Medio Oriente, un’area che, dopo la sconfitta dell’Impero Ottomano, era fragile, squilibrata, meta di interessi locali ed europei: una vera polveriera. Wilson, “the professor”, figlio di un pastore protestante, favorevole al segregazionismo razziale e all’espansionismo statunitense, ebbe un ruolo di primo piano nel proporre l’idea secondo cui, in politica estera, i rapporti fra gli Stati avrebbero dovuto basarsi sul diritto (un diritto garantito da una Società super partes, la Società delle Nazioni), invece che sulla forza. Giunto in Europa, Wilson volle far visita – come nessun altro presidente degli Stati Uniti prima di lui – a papa Benedetto XV, nel gennaio 1919 visitò Roma e fu ospite di re Vittorio Emanuele III, che gli offrì il collare dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata, da Wilson garbatamente rifiutato, si recò a Pisa e a Genova. A Genova, se una pioggia torrenziale non glielo avesse impedito, Wilson avrebbe voluto onorare la tomba di Giuseppe Mazzini, di cui era fervente ammiratore. Da Genova Wilson proseguì trionfalmente per Milano e Torino e quindi giunse a Versailles.
Alla fine della Conferenza di Versailles e alla sottoscrizione del trattato di pace, firmato il 18 giugno 1919, tutti furono insoddisfatti: la Francia, che non era riuscita a disinnescare il pericolo tedesco, l’Italia, che ottenne una “vittoria mutilata”, privata come fu dell’allargamento dei suoi confini orientali oltre la città di Fiume e in Dalmazia, la Gran Bretagna, ridimensionata nel proprio ruolo di arbitro internazionale, assunto ormai dagli Stati Uniti, il Belgio, che non ottenne le richieste riparazioni di guerra. Il presidente americano Wilson disse: «tempo una generazione e avremo un’altra guerra mondiale». Fu profeta.
A Genova, nell’aprile 1922, si cercò di rimediare a quel senso di insoddisfazione e di pericolosità con cui tre anni prima si era usciti dalla reggia di Versailles. Si cercò di fare di più. Così, per esempio, furono invitate a partecipare anche delegazioni di paesi esclusi dalle trattative di Versailles. Per la Russia, venne a Genova Georgij Vasil’jevic Cicerin; per il Vaticano agirono il vescovo di Genova mons. Giosuè Signori, don Luigi Sturzo, monsignor Giuseppe Pizzardo. La maggior parte dei delegati soggiornò a Genova, ma molti di loro, invece, trovarono sistemazione in Riviera. A Rapallo, presso l’Hotel Imperiale, alloggiarono i 90 membri della delegazione russa. Qui, il 16 aprile, un giorno piovoso di Pasqua, i ministri tedesco von Rathenau e russo Cicerin firmarono un accordo storico per regolamentare i futuri rapporti fra le due potenze – un accordo segreto che avrebbe consentito, fra le altre cose, ai tedeschi di riamarsi, nonostante il veto del trattato di Versailles. In seguito, Cicerin fu invitato da Gabriele d’Annunzio al Vittoriale, dove rimase suo ospite per un paio di giorni: dal 25 al 27 maggio. Si racconta che D’Annunzio, spirito originale, avesse organizzato un brutto tiro all’indirizzo dell’ignaro Cicerin e che, durante il pranzo, fattosi portare una spada finemente intarsiata, gli avesse annunciato: «mio caro amico, per certe mie ragioni, ho deciso di tagliarle la testa». Uno scherzo che finì in risa, quando, rimessa la lama nel fodero, D’Annunzio sentenziò: «peccato questa sera non sia in forma».
In volo su Versailles di Pietro Pistolese contempera l’accuratezza storica e l’agilità narrativa. I grandi fatti, i personaggi maggiori, le missioni militari italiane in Africa, Albania, in Francia, dove si distinsero per coraggio Ricciotti e Peppino Garibaldi, nipoti dell’eroe dei due mondi, si mettono accanto a storie personali, vicende grandi, benché tenute al margine della storia, che Pietro Pistolese ampiamente illustra: e, dunque, riguardo ai ritratti umani, sono ampi, in queste pagine, quelli di Ataturk, del colonnello Thomas Edward Lawrence, meglio noto come Lawrence d’Arabia, di Hillary st John Bridger Philby e di Gabriele d’Annunzio, a cui si dedica ampio spazio raccontandone il soggiorno genovese, la fuga in Francia, per debiti, la presa di Fiume, a riscatto della “vittoria mutilata”, l’audace, inconvenzionale, progressista vicenda della Reggenza del Carnaro. Nel libro si dice anche del colonnello Raffaele Repetto, comandante del 3° gruppo dei reparti d’assalto Fiamme Nere, genovese, originario del quartiere dove era nato il celebre Balilla, che, invece di bloccare d’Annunzio a ogni costo – “pena la fucilazione” – vi si unì, con i suoi arditi, al grido di “O Fiume o morte!”. Di lui e dei suoi si racconta nel libro il divertente episodio dell’“assalto delle violette” – di quella volta, cioè, che d’Annunzio sentenziò di voler andare incontro alla primavera. Un’altra figura cui nel libro si dà spazio è Giuseppe Lanza Branciforte, principe di Scordia, membro della delegazione italiana a Versailles, di antica famiglia siciliana, figlio del senatore Pietro e di Giulia Florio, fratello di Ignazio e Manfredi, entrambi caduti da eroi sul campo ed entrambi pluridecorati al VM, amico personale di Vittorio Emanuele Orlando. Si racconta, quindi, attraverso quale percorso Benito Mussolini, da disertore e misconosciuto giornalista, poté aspirare a diventare il “duce” degli Italiani e quali guide trovò nelle coltissime Angelica Balabanoff e Margherita Sarfatti, le due donne che, come si scrive, “cambiarono il corso della vita di Mussolini”. Prendono luce episodi di coraggio che meritano ben altra considerazione rispetto a quella normalmente concessagli nei libri di storia: il primo paracadutista, Alessandro Tandura, e la sua impresa, il trasvolatore e dantista Harukiki Shimoi, amico del Vate, l’eroico maggiore dei Carabinieri Cosma Manera, Elia Rossi Passavanti, uomo che visse molte vite in una, combattente, politico, professore, il solo ad aver ricevuto due medaglie d’oro al VM, nella Prima e nella Seconda guerra mondiale. La storia di questi anni cruciali per il Novecento e i suoi esiti comprende vari capitoli che chiedono di essere narrati al femminile. Nel libro di Pietro Pistolese si racconta, dunque, anche di alcune donne eccezionali: Gertrude Bell, prima donna laureata a Oxford a pieni voti, archeologa e orientalista, poliglotta, “madre dei fedeli”, secondo l’appellativo che le riservarono i beduini, la “Giovanna d’Arco araba” Nazik Khatim al-Abrid; Sarah Aaronsohn, agente segreto britannico, membro del gruppo di intelligence NILI, eroina della causa sionista, arrestata e torturata insieme al padre dai nemici ottomani. Forte e generosa, Sarah era sorella del botanico e agente segreto Aaron. La sua azione si rivelò determinante per gettare le basi del futuro Stato di Israele; Gemma Guerrieri Gonzaga, filantropa illuminata, che per prima organizzò un sistema di raccolta di informazioni sui soldati dispersi e che nel 1923, per soccorrere e reintegrare i reduci italiani di ritorno dalla Russia, fondò un’apposita associazione.
Pietro Pistolese, autore de In volo su Versailles, è generale di Corpo d’Armata dei Carabinieri (ris), storico, saggista, già autore, con Simon Petermann, del volume La terra, il sangue, le parole (Stefano Termanini Editore). Dedica questo suo più recente libro a suo padre, generale di Divisione menotti Pistolese, ritratto in copertina in uniforme di aviatore, accanto al suo aeroplano FIAT R2, “un ufficiale – dice la dedica – che combatté quattro guerre e mi trasmise l’amore per la Storia”. Pietro Pistolese ha retto incarichi di comando di vertice, tra i quali, in Italia, il Comando Interregionale «Pastrengo» (Lombardia, Piemonte, Liguria e Val D’Aosta), il Comando Legioni Regioni Carabinieri Marche e Liguria, il Comando Carabinieri Paracadutisti “TUSCANIA”. Ha fondato e diretto il COESPU, «Center of Excellence for Stability Police Units», per la formazione delle Unità Internazionali di Polizia da impiegare nelle aree di crisi. All’estero, in Medio Oriente è stato due volte comandante del Contingente Carabinieri e vice-comandante della Missione internazionale di pace (TIPH), «Temporary International Presence in Hebron» (1994–1997); Consigliere per la sicurezza della Missione dell’U.E. per le elezioni del Presidente e del Consiglio dell’Autonomia Nazionale Palestinese nel 1996; Comandante della Missione di pace europea EUBAM a Gaza (2005-2008). Numerosi e di assoluto rilievo anche gli incarichi ricoperti in Europa: in Albania, Pietro Pistolese è stato Comandante in capo della Missione Multinazionale Europea di Polizia in Albania; a Bruxelles è stato Presidente del Gruppo di Valutazione Collettiva presso l’Unione Europea, ha avuto, cioè il compito di valutare i Paesi aspiranti ad entrare nella Unione sotto i profili della cooperazione giudiziaria, controllo delle frontiere, traffico della droga, asilo ed immigrazione [s.t. | 10 aprile 2022].