Ad Arenzano, alla Libreria Sabina, con Maria Cicconetti, Fabia Binci e Gino Angelo Torchio in un pomeriggio assolato di giugno

Se non si prova, non si sa. Proviamo, dunque, anche se è un vererdì pomeriggio di fine giugno e ad Arenzano il gran caldo porta il desiderio di chi passa verso l’azzurro luccicante del mare più che attirarlo verso le pagine odorose di stampa dei nostri libri, impilati all’ombra generosa della tenda della Libreria Sabina. Proviamo, dunque, pensando che ogni strada va, prima ancora che si possa tracciarla, aperta.

Maria Cicconetti e Gino A. Torchio sono giunti da Chivasso, dove l’alta pressione di questo fine giugno 2019 è ancora più solida e il sole, nelle ore meridiane, ti avvolge dentro un’aria liquida. Ad Arenzano, la mattina, proprio mentre si dissolve in Val Polcevera l’ultima polvere sollevata dall’esplosione controllata del Ponte Morandi, Maria Cicconetti e Gino Angelo Torchio, accolti da Gregorio, il titolare della libreria, allestiscono il tavolino del firmacopie. Qualcuno si ferma, si incuriosisce; chiede. Maria racconta di come sia nato il suo libro. Fa lo stesso Gino Torchio, medico-scrittore, autore recente de Il violino dell’Eden.

Il mezzogiorno la cittadina si svuota. Fino alle tre non c’è che il mare. La siesta al riparo dell’ombrellone, forse, per alcuni. Dopo, però, la Libreria Sabina riapre, in cima al caruggio che taglia Arenzano dall’alto al basso e che – via principale del suo centro storico – porta il nome del Capitan Romeo, che fu forse, se la leggenda è giusta, una specie di Robin Hood di questa, oggi tanto placida, parte della Riviera. Gregorio, titolare perfetto, prepara tavolo dei relatori e sedie e alle cinque e un quarto si può cominciare. Siamo pochi, è vero – gli happy few? – ma, grazie in particolare a Fabia Binci, l’amore per la letteratura, i libri, la parola scritta circola come dentro un circuito refrigerante; come aria fresca che si gode e che si respira.

Maria è al tavolo, in mezzo. Fabia comincia: dice quanto sia difficile scrivere un’autobiografia e quanto lei abbia ammonito sempre, allievi e allieve, a starsene lontani. Un’autobiografia – dice – è una tentazione alla quale quasi sempre si cede di mettersi in mostra. Di falsificarsi: Fabia fa l’esempio di Goldoni e di quella pagina delle sue Memorie in cui si attribuisce un risultato scolastico che i documenti clamorosamente negano (ma vogliamo ricordare, per caso, anche il beffardo cavaliere di Seingalt…?). In Maria, invece, nel suo libro, si legge l’urgenza dello scrivere; del dire, tanto più quanto più le cose che si debbono dire sono difficili, perché ripercorrere all’indietro la propria storia è un modo per dare un senso a ogni suo momento; perfino a quelli più dolorosi.

Cita l’abbandono, Fabia Binci, con cui il libro di Maria comincia. «C’è una piccola casa, povera, ma piena di luce», dice. La foto che non c’è è il ricordo che Maria si porta dentro di sé, da allora in avanti ed è un ricordo di gioia. «La gioia, fosse anche una gioia semplice, come quella che Maria conserva dentro di sé dalla sua prima infanzia, dura per sempre. Una volta che la si è provata, non la si dimentica. Mai più». Ma La foto che non c’è è anche la storia di una negazione e contiene il dramma dell’essere lasciati soli ad affrontare la dimensione smisurata della vita. Dramma che, per converso, rende più forte, più sbilanciata, la scelta del perdono. Fabia si sofferma sul perdono che Maria concede al padre morente. Spiega quella pagina intensa e il dono della pranoterapia che da allora, cominciando con un sogno, Maria va via via scoprendo.

Intervengo anche io sul perdono che è, per Maria, un’occasione e un bivio. Lei non lo sa, quando il bivio le si para davanti, lo si capisce soltanto più tardi, ma la possibilità di concedere o negare il perdono, che le è data, quando il padre la chiama al suo capezzale, funziona come un interruttore. Maria può scegliere di lasciarsi andare a fondo nel pozzo oscuro dell’odio; chiudersi su se stessa, come sarebbe forse più naturale, più ovvio, forse addirittura, secondo una certa logica, più “giusto”, oppure slanciarsi oltre, gettarsi tutto alle spalle, scegliere per se stessa un orizzonte di luce. Nell’impulso di quel momento si concentra un futuro di possibilità. Il padre le chiede di essere perdonato. Lei non vorrebbe, lei non potrebbe. Eppure, proprio un momento prima che il suo senso di ragione, e di giustizia perfino, la porti a schiantarsi contro le secche dell’odio, Maria dà un colpo al suo timone. Un colpo irragionevole (a riprova che non siamo fatti di sola ragione), che la rimette però sulla sua vera rotta.
Leggo quella pagina, che è la più forte del libro. L’abbiamo letta tante volte in questo anno di presentazioni, tante volte e a tanti pubblici diversi. Non lo si fa mai a cuor leggero, mai senza emozione.
Tocca quindi a Maria. Racconta come abbia scritto. Dice del suo desiderio – del suo bisogno – di dire. «All’inizio avevo scritto tante pagine, c’era un gran disordine, tante ne avevo gettate via», spiega. Racconta del perdono e, anche, della pranoterapia; di quanto, al principio, fosse difficile credere di poter alleviare le sofferenze degli altri. «Le mie mani si scaldavano – ricorda – e io mi prendevo paura e le allontanavo».
Gino Angelo Torchio riferisce quale sia stato lo spunto che lo ha portato a scrivere, «in soli 22 giorni» ricorda, il suo Il violino dell’Eden, libro «autoprodotto per scelta». È la storia di una ragazza che subisce una violenza, ma che ugualmente decide di far nascere le due gemelle che, proprio a seguito della violenza, sono state concepite. È un percorso difficile quello che la sua protagonista affronta, un percorso ad ostacoli lastricato dei pregiudizi della società, cosparso di dolore e di ingiustificato senso di colpa. Conflittuale. Alla fine, però, sia la sua protagonista sia la più ribelle delle sue due figlie riescono ad essere – scelgono di essere! – due persone esemplari. Come Gino Angelo Torchio dice e conclude, facendosi largo tra pregiudizi e dolori, l’una e l’altra diventano «una madre e una figlia straordinarie».

In una giornata meno calda, forse, quando le tramontane autunnali avranno dissolto l’afa di queste giornate africane, torneremo ad Arenzano. Grati per l’accoglienza, tanto attenta e cordiale, ci diciamo, ci ridiciamo, ci ripromettiamo di tornare.
Più avanti.
I temi di cui abbiamo parlato non invecchiano mai. [29.06.2019 / stefano.termanini@gmail.com]