Parlando di Empedocle, ad Agrigento
«Che succederà?». Glielo chiesi con apprensione, come se dovesse essere per domani. «Non si sa», mi rispose, ma sembrava impensierito, pericolante. «Non si sa, è perduta la parte in cui c’era scritto». Me lo disse non come se sapesse che era perduta da duemilacinquecento anni, ma come se fosse una scoperta di ora; come se ancora bruciasse.
«Quale delle due, però? Quale prevarrà». Lo incalzavo, attorno alla tavola quadrata, io su un lato, lui all’estremità, mentre dalla finestra, colore della sabbia, splendeva il Tempio della Concordia. Mi disse che credeva che sarebbe stato il turno di Neikos. Ovunque ce n’erano, di segnali. «Non Philia irreprensibile, non il suo benevolo e immortale slancio, ma la separatrice inimicizia di Neikos…».
Recitava, pareva che recitasse l’augusto professore, ai cui occhi Empedocle era presente. Ne parlavamo come se dovesse dirci il tempo che avrebbe fatto domani, se sul frontone della Concordia avremmo visto piovere o se ci avrebbe inondati il fiorire dei mandorli. Si chiuderà su se stesso l’Universo, conteso dai suoi due principi e sarà Philia oppure Neikos – non si sa –, Amore o Odio, Composizione e Unione, oppure Divisione e Morte.
Non si sa. Come un sacco, come una sporta, si sarebbe chiuso l’Universo, come una sella di cavallo, come una sfera, con dentro la Terra, il Sole, tutte le stelle, la Via Lattea, due o tre milioni di galassie, forse di più. L’avrebbe chiuso nel sacco Neikos – così aveva visto e così aveva scritto. «Ma ebbe paura, forse – disse ancora il professore – e poi cancellò».
Bevve un lungo sorso di vino, la notte era fresca. Luminosa era la Luna allo zenit del Tempio della Concordia. «Tolse quelle parole, tolse il finale». Un cameriere socchiuse la finestra, scostò l’ampio cristallo, dalla campagna entrò il frinire dei grilli. «Non volle che si sapesse, preferì non dirlo».
Era l’ora di ordinare il dessert, stava finendo la sera, giungeva la notte. «Empedocle aveva scritto che non nascita e morte, ma mescolanza e separazione sarebbero stati i nomi giusti da dare alle cose. Non aveva paura. Non c’era morte, né corruzione, né niente mai che finisse: né per gli uomini, i singoli, né per il cielo e la Terra, né per il cosmo intero. Sapeva che la paura ce l’avevano gli altri: i suoi simili, gli uomini. Tutti gli altri uomini, i suoi concittadini. Preferì non dire niente. Non a Philia, ma a Neikos toccherà il passo di danza estremo. E poi sarà la separazione. L’Universo è condannato a morire».
Guardavo nel piatto. Posai la forchetta di lato. Il pranzo era finito e uscimmo sulla terrazza. Il professore fumava un sigaro odoroso e la Luna era sparita dietro il pronao della Concordia. Giù in fondo, dietro gli ulivi, mi pareva di indovinare il mare. Era tutto così fresco e profumato e bello, così ordinato, come nell’acquerello di un pittore romantico inglese. Eppure, dopo che ci eravamo addentrati a quel modo nei versi di Empedocle, tutto ci pareva fragile. Cento miliardi? No, tanto di più. Mille miliardi o forse un milione di miliardi di anni (un miliardo di miliardi di anni?)… a mente facevo il conto. E tanto quanto mi era parso che Empedocle avesse scritto ieri o soltanto stamattina, ora, datoci il suo funesto verdetto, il tanto, il tutto mi pareva comunque poco. Ora che avevo inteso che era destinato a “separarsi”; a finire. [stefano.termanini@gmail.com | 26.5.2023]
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