(il docufilm prodotto da Stefano Termanini Editore per il libro di Pietro Pistolese e per i 100 anni della Conferenza Economica di Genova)
Il 10 aprile 1922, cento anni fa, si apriva a Genova la Conferenza economica. Si teneva nell’antico e splendido Palazzo San Giorgio, costruito nel 1260 dal capitano del popolo Guglielmo Boccanegra su progetto di frate Oliverio; lo stesso palazzo nelle cui carceri Marco Polo aveva dettato il suo Milione. In veste di giornalisti, giunsero a Genova Pietro Nenni, inviato speciale de «L’Avanti!», Antonio Gramsci, Benito Mussolini, Ernest Hemingway. I delegati che parteciparono alla Conferenza furono in totale 1254, per 34 paesi. Per quaranta giorni, fino al 19 maggio 1922, data in cui la Conferenza si chiuse, Genova fu il palcoscenico delle decisioni del mondo.
Di questo – e molto altro – si racconta nel libro di Pietro Pistolese, In volo su Versailles. La Conferenza di pace un’eredità di conflitti, Stefano Termanini Editore, da appena qualche giorno in libreria. Secondo la tesi del libro, in cui si traccia un quadro storico articolato e vastissimo, la pace di Versailles aveva radici profonde nella storia europea, ma più profonde e complesse sarebbero state le sue conseguenze, la sua (per così dire) “onda lunga”, un’onda di rancori e contrapposizioni che, in meno di un ventennio, avrebbe condotto alla Seconda guerra mondiale e che ancora non si è del tutto esaurita. Fu, infatti, a Versailles che, tra il 18 gennaio e il 28 giugno 1919, furono discusse le condizioni della pace seguita alla prima guerra mondiale, il conflitto che era stato, fino ad allora, il più sanguinoso della storia: l’“inutile strage”, come l’aveva definita papa Benedetto XV, il genovese Giacomo della Chiesa. Mai la storia aveva conosciuto una carneficina di proporzioni simili: la guerra era costata 24milioni di morti e a questi si erano aggiunti, in tutto il mondo, altri 30 milioni di vittime mietute dalla temibile pandemia “Spagnola”, un virus che si diffuse con rapida letalità in un mondo devastato dalla guerra e che – come è stato detto – in sole 24 settimane fece più vittime di quante ne avesse fatte la peste nera in un secolo.
La secentesca e sontuosa reggia di Versailles, voluta dal re “Sole”, Luigi XIV, massimo simbolo della grandeur francese, fu il fondale su cui si misero in luce le personalità di Georges Clemenceau, il volitivo e autoritario presidente della Repubblica francese, così refrattario al compromesso da essersi meritato l’appellativo de “il Tigre”, Thomas Woodrow Wilson, il 28mo presidente degli Stati Uniti, giurista e accademico, già rettore dell’Università di Princeton, celebre per la sua dottrina dei 14 punti, David Lloyd George, primo ministro inglese, avvocato, liberale, aperto e brillante, cui, tra l’altro, alcuni anni più tardi – nel 1921 – si sarebbe dovuto il riconoscimento della libera repubblica di Irlanda, Arthur Balfour, sostenitore della causa sionista, membro di spicco della delegazione britannica. Per l’Italia erano presenti il primo ministro Vittorio Emanuele Orlando e il ministro degli Esteri Sidney Sonnino, liberale, conservatore, meridionalista, di padre italiano ebreo e di madre inglese anglicana. Sonnino fu personalità di spicco e richiese – con ostinazione – che all’Italia si applicassero le clausole del patto di Londra, sottoscritto segretamente nel 1915. Sonnino temeva che la dissoluzione dell’impero austro-ungarico avrebbe condotto allo smembramento dei Balcani e alla loro instabilità. La storia gli avrebbe dato ragione. A Versailles si fece avanti anche William Edward Burghardt Du Bois, studioso e attivista per i diritti dei popoli dell’Africa. Du Bois vagheggiava la nascita di uno stato centrafricano, unendo il Congo belga e le ex colonie tedesche. Le grandi potenze europee, implicate in avventure coloniali che restavano un grande affare, fecero di tutto per non dargli ascolto.
Tra le conseguenze della malfatta pace di Versailles ci furono il crollo dell’economia tedesca e l’iperinflazione della Repubblica di Weimar, il nazismo, il fascismo, l’instabilità dei Paesi balcanici, le aspirazioni e le predazioni colonialiste e, secondo la tesi del libro di Pietro Pistolese, molte delle più recenti e sanguinose contrapposizioni in quei paesi del Caucaso – Armenia e Azerbaigian – che, dopo la Prima guerra mondiale, le potenze vincitrici ritennero di sistemare – così si disse – in “maniera stabile e duratura”. Le conseguenze di Versailles sono come un fiume carsico. Si ritrovano in Medio Oriente così come nei diffusi rigurgiti antisemiti, nelle aree instabili del mondo, nei paesi in via di sviluppo, nelle ex colonie, in quegli stati in cui si vive tuttora imprigionati dalla cortina della guerra fredda e in quelli ove, la guerra diventa – ahimè – calda.
Dopo l’esito insoddisfacente di Versailles, molto ci si attendeva dalla Conferenza economica di Genova. Sarebbe dovuta essere – si diceva – la “panacea di tutti i mali d’Europa”. Prima che a Genova, i grandi decisori del mondo si erano incontrati, nel gennaio 1922 (e, più precisamente, tra il 6 e il 13) a Cannes, dove si era trattato del ripristino dei rapporti diplomatici tra i paesi che erano usciti vincitori dalla prima guerra mondiale e la sconfitta Germania; ma anche dei rapporti diplomatici da tenere con la Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa, che alcuni mesi più tardi, il 30 dicembre 1922, sarebbe diventata Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS). Cannes era finita male: il primo ministro francese Aristide Briand, che aveva accettato di ridurre la somma del risarcimento tedesco, era stato attaccato dai revanscisti e costretto alle dimissioni.
Per l’Italia, a Cannes era presente il primo ministro Ivanoe Bonomi. Fu Bonomi a proporre che la conferenza di Cannes si riaggiornasse in Italia, a Venezia. Venezia non convinceva Lloyd George e Bonomi rilanciò proponendo che sede della nuova conferenza fosse Genova. La conferenza di Genova avrebbe dovuto mettere a posto, “riparare”, ciò che a Versailles non era stato fatto appropriatamente – ciò che era stato fatto in maniera incompiuta o pericolante. A Versailles la politica internazionale aveva vissuto, sul principio, i suoi maggiori entusiasmi. Sul tavolo dei negoziati, il primo punto era stato il nuovo assetto da dare all’Europa – punto che si accompagnava al desiderio di “farla pagare” ai tedeschi e di umiliarli. Seguivano gli altri: il sionismo e i confini orientali dell’Italia erano fra questi. C’erano, poi, il timore che l’ideologia comunista si estendesse in Europa occidentale e i problemi del Medio Oriente, un’area che, dopo la sconfitta dell’Impero Ottomano, era fragile, squilibrata, meta di interessi locali ed europei: una vera polveriera. Wilson, “the professor”, figlio di un pastore protestante, favorevole al segregazionismo razziale e all’espansionismo statunitense, ebbe un ruolo di primo piano nel proporre l’idea secondo cui, in politica estera, i rapporti fra gli Stati avrebbero dovuto basarsi sul diritto (un diritto garantito da una Società super partes, la Società delle Nazioni), invece che sulla forza. Giunto in Europa, Wilson volle far visita – come nessun altro presidente degli Stati Uniti prima di lui – a papa Benedetto XV, nel gennaio 1919 visitò Roma e fu ospite di re Vittorio Emanuele III, che gli offrì il collare dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata, da Wilson garbatamente rifiutato, si recò a Pisa e a Genova. A Genova, se una pioggia torrenziale non glielo avesse impedito, Wilson avrebbe voluto onorare la tomba di Giuseppe Mazzini, di cui era fervente ammiratore. Da Genova Wilson proseguì trionfalmente per Milano e Torino e quindi giunse a Versailles.
Alla fine della Conferenza di Versailles e alla sottoscrizione del trattato di pace, firmato il 18 giugno 1919, tutti furono insoddisfatti: la Francia, che non era riuscita a disinnescare il pericolo tedesco, l’Italia, che ottenne una “vittoria mutilata”, privata come fu dell’allargamento dei suoi confini orientali oltre la città di Fiume e in Dalmazia, la Gran Bretagna, ridimensionata nel proprio ruolo di arbitro internazionale, assunto ormai dagli Stati Uniti, il Belgio, che non ottenne le richieste riparazioni di guerra. Il presidente americano Wilson disse: «tempo una generazione e avremo un’altra guerra mondiale». Fu profeta.
A Genova, nell’aprile 1922, si cercò di rimediare a quel senso di insoddisfazione e di pericolosità con cui tre anni prima si era usciti dalla reggia di Versailles. Si cercò di fare di più. Così, per esempio, furono invitate a partecipare anche delegazioni di paesi esclusi dalle trattative di Versailles. Per la Russia, venne a Genova Georgij Vasil’jevic Cicerin; per il Vaticano agirono il vescovo di Genova mons. Giosuè Signori, don Luigi Sturzo, monsignor Giuseppe Pizzardo. La maggior parte dei delegati soggiornò a Genova, ma molti di loro, invece, trovarono sistemazione in Riviera. A Rapallo, presso l’Hotel Imperiale, alloggiarono i 90 membri della delegazione russa. Qui, il 16 aprile, un giorno piovoso di Pasqua, i ministri tedesco von Rathenau e russo Cicerin firmarono un accordo storico per regolamentare i futuri rapporti fra le due potenze – un accordo segreto che avrebbe consentito, fra le altre cose, ai tedeschi di riamarsi, nonostante il veto del trattato di Versailles. In seguito, Cicerin fu invitato da Gabriele d’Annunzio al Vittoriale, dove rimase suo ospite per un paio di giorni: dal 25 al 27 maggio. Si racconta che D’Annunzio, spirito originale, avesse organizzato un brutto tiro all’indirizzo dell’ignaro Cicerin e che, durante il pranzo, fattosi portare una spada finemente intarsiata, gli avesse annunciato: «mio caro amico, per certe mie ragioni, ho deciso di tagliarle la testa». Uno scherzo che finì in risa, quando, rimessa la lama nel fodero, D’Annunzio sentenziò: «peccato questa sera non sia in forma».
In volo su Versailles di Pietro Pistolese contempera l’accuratezza storica e l’agilità narrativa. I grandi fatti, i personaggi maggiori, le missioni militari italiane in Africa, Albania, in Francia, dove si distinsero per coraggio Ricciotti e Peppino Garibaldi, nipoti dell’eroe dei due mondi, si mettono accanto a storie personali, vicende grandi, benché tenute al margine della storia, che Pietro Pistolese ampiamente illustra: e, dunque, riguardo ai ritratti umani, sono ampi, in queste pagine, quelli di Ataturk, del colonnello Thomas Edward Lawrence, meglio noto come Lawrence d’Arabia, di Hillary st John Bridger Philby e di Gabriele d’Annunzio, a cui si dedica ampio spazio raccontandone il soggiorno genovese, la fuga in Francia, per debiti, la presa di Fiume, a riscatto della “vittoria mutilata”, l’audace, inconvenzionale, progressista vicenda della Reggenza del Carnaro. Nel libro si dice anche del colonnello Raffaele Repetto, comandante del 3° gruppo dei reparti d’assalto Fiamme Nere, genovese, originario del quartiere dove era nato il celebre Balilla, che, invece di bloccare d’Annunzio a ogni costo – “pena la fucilazione” – vi si unì, con i suoi arditi, al grido di “O Fiume o morte!”. Di lui e dei suoi si racconta nel libro il divertente episodio dell’“assalto delle violette” – di quella volta, cioè, che d’Annunzio sentenziò di voler andare incontro alla primavera. Un’altra figura cui nel libro si dà spazio è Giuseppe Lanza Branciforte, principe di Scordia, membro della delegazione italiana a Versailles, di antica famiglia siciliana, figlio del senatore Pietro e di Giulia Florio, fratello di Ignazio e Manfredi, entrambi caduti da eroi sul campo ed entrambi pluridecorati al VM, amico personale di Vittorio Emanuele Orlando. Si racconta, quindi, attraverso quale percorso Benito Mussolini, da disertore e misconosciuto giornalista, poté aspirare a diventare il “duce” degli Italiani e quali guide trovò nelle coltissime Angelica Balabanoff e Margherita Sarfatti, le due donne che, come si scrive, “cambiarono il corso della vita di Mussolini”. Prendono luce episodi di coraggio che meritano ben altra considerazione rispetto a quella normalmente concessagli nei libri di storia: il primo paracadutista, Alessandro Tandura, e la sua impresa, il trasvolatore e dantista Harukiki Shimoi, amico del Vate, l’eroico maggiore dei Carabinieri Cosma Manera, Elia Rossi Passavanti, uomo che visse molte vite in una, combattente, politico, professore, il solo ad aver ricevuto due medaglie d’oro al VM, nella Prima e nella Seconda guerra mondiale. La storia di questi anni cruciali per il Novecento e i suoi esiti comprende vari capitoli che chiedono di essere narrati al femminile. Nel libro di Pietro Pistolese si racconta, dunque, anche di alcune donne eccezionali: Gertrude Bell, prima donna laureata a Oxford a pieni voti, archeologa e orientalista, poliglotta, “madre dei fedeli”, secondo l’appellativo che le riservarono i beduini, la “Giovanna d’Arco araba” Nazik Khatim al-Abrid; Sarah Aaronsohn, agente segreto britannico, membro del gruppo di intelligence NILI, eroina della causa sionista, arrestata e torturata insieme al padre dai nemici ottomani. Forte e generosa, Sarah era sorella del botanico e agente segreto Aaron. La sua azione si rivelò determinante per gettare le basi del futuro Stato di Israele; Gemma Guerrieri Gonzaga, filantropa illuminata, che per prima organizzò un sistema di raccolta di informazioni sui soldati dispersi e che nel 1923, per soccorrere e reintegrare i reduci italiani di ritorno dalla Russia, fondò un’apposita associazione.
Pietro Pistolese, autore de In volo su Versailles, è generale di Corpo d’Armata dei Carabinieri (ris), storico, saggista, già autore, con Simon Petermann, del volume La terra, il sangue, le parole (Stefano Termanini Editore). Dedica questo suo più recente libro a suo padre, generale di Divisione menotti Pistolese, ritratto in copertina in uniforme di aviatore, accanto al suo aeroplano FIAT R2, “un ufficiale – dice la dedica – che combatté quattro guerre e mi trasmise l’amore per la Storia”. Pietro Pistolese ha retto incarichi di comando di vertice, tra i quali, in Italia, il Comando Interregionale «Pastrengo» (Lombardia, Piemonte, Liguria e Val D’Aosta), il Comando Legioni Regioni Carabinieri Marche e Liguria, il Comando Carabinieri Paracadutisti “TUSCANIA”. Ha fondato e diretto il COESPU, «Center of Excellence for Stability Police Units», per la formazione delle Unità Internazionali di Polizia da impiegare nelle aree di crisi. All’estero, in Medio Oriente è stato due volte comandante del Contingente Carabinieri e vice-comandante della Missione internazionale di pace (TIPH), «Temporary International Presence in Hebron» (1994–1997); Consigliere per la sicurezza della Missione dell’U.E. per le elezioni del Presidente e del Consiglio dell’Autonomia Nazionale Palestinese nel 1996; Comandante della Missione di pace europea EUBAM a Gaza (2005-2008). Numerosi e di assoluto rilievo anche gli incarichi ricoperti in Europa: in Albania, Pietro Pistolese è stato Comandante in capo della Missione Multinazionale Europea di Polizia in Albania; a Bruxelles è stato Presidente del Gruppo di Valutazione Collettiva presso l’Unione Europea, ha avuto, cioè il compito di valutare i Paesi aspiranti ad entrare nella Unione sotto i profili della cooperazione giudiziaria, controllo delle frontiere, traffico della droga, asilo ed immigrazione [s.t. | 10 aprile 2022].